Aula multifunzionale
via Mascarella 44, Bologna
info: 051.2092413
ingresso libero
PRIMA PARTE
martedì 5 dicembre 2006, ore 15
Aelita (dal romanzo di Aleksej N. Tolstoj, 1924, URSS, 113’, v.o.)
regìa di Jakov Protazanov
musicato dal vivo dalla band VRI-IL
mercoledì 6 dicembre 2006, ore 13
La signorina e il teppista (Baryšnja i chuligan, 1918, RSFSR, v.o., 35’) regìa di Evgenij Slavinskij
La febbre degli scacchi (Šakmatnaja gorjacka, 1925, URSS, v.o., 19’) regìa di Vsevolod Pudovkin, Nikolaï Chpikovski
Il frutto dell’amore (Jagodka ljubvi, 1926, URSS, v.o., 20’)
regìa di Aleksandr P. Dovženko
giovedì 7 dicembre 2006, ore 13
Il vecchio e il nuovo (Staroe i novoe, 1926-29, URSS, v.o., 89')
regìa di Sergej M. Ejzenštejn e Grigorij Aleksandrov
luned́ 11 dicembre 2006, ore 15
Merletti (Kruževa, 1928, URSS, v.o., 77')
regìa di Sergej Jutkevic
marted́ 12 dicembre 2006, ore 17
La casa nella piazza Trubnaja (Dom na Trubnoj, 1928, URSS, v.o., 65’)
regìa di Boris Barnet
La Soffitta Centro di Promozione Teatrale
Laboratori DMS - via Azzo Gardino 65/a, 40122 Bologna
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L’Ottobre rosso del 1917 segna una svolta epocale per
la Russia. E’ l’avvio del trapasso da un regime zarista ad
un altro totalitario. Il cinema degli anni Venti si colloca proprio ai
limiti del secondo, in una zona cieca. Negli esiti, la sua storia resta
fatalmente un mito. E come ogni mito, si mantiene necessaria e
impossibile. Di oltre duemila film accreditati, soltanto alcune decine
sono oggi conservate. Ancora meno sono le copie visibili. Ciò si
deve a tanti autodafé.
Basti citare l’incendio delle copie evacuate dagli archivi
moscoviti durante l’assedio tedesco del 1941-43. Soltanto
recentemente si registra il ripristino del colore (rosso) del Potëmkin
(Ejzenštejn, 1925) che andò perso in quel frangente. I
cataloghi sono di continuo rivisti e corretti, almeno dal 1991.
Perciò è stato più facile tramandare i classici
già esportati all’estero, a scapito di altri lavori
‘sommersi’. Qui ne proponiamo diversi. L’origine
è molteplice: le accademie del GIK e della KEM (Ermler), gli
indipendenti del collettivo Kulešov (Barnet e Pudovkin) e la
scuola dell’attore eccentrico (Jutkevic alla FEKS). Al di
là di questa diversità di scuole, il programma trova
unità sotto un’unica bandiera: l’avanguardia
sovietica. Un’avanguardia di punta rispetto alle varie
cinematografie nazionali. Tant’è che gli epigoni –
Ejzenštejn e Pudovkin– sono studiati da nazisti e fascisti
durante le rispettive dittature. L’innovazione è qui
massima. Ciò nonostante, in Italia questa stagione resta
nell’ombra. E’ una grave lacuna. Perciò oggi
volgiamo lo sguardo indietro. Verso quei tempi di miseria e passione,
quando si proietta su schermi itineranti fino in Siberia, là
dove mancano il sovet e l’elettricità.
Ecco, dunque, la ragione di questa rassegna:
riproporre alcuni dei film dell’epoca e, per quanto si
può, riabilitare certi titoli. Forse, paradossalmente, per la
stessa ragione che ha spinto Stalin a bocciarli: la forma. Una forma
inedita. Come in La casa sulla piazza Trubnaja
(Barnet, 1928) dove la cinepresa balza felina in avanti per risalire
altrettanto fluidamente, di piano in piano, un condominio coabitato.
Così che la scala della Trubnaja muta in una scala simbolica con
i tipi e i mestieri più consueti di Mosca. Per l’ex-pugile
Barnet non si tratta quindi di virtuosismi. Lo stesso dicasi per
Jutkevic, che usa il montaggio armonico e fa coincidere il movimento
dell’operaio con quello perfetto della macchina. Questi sono
inediti esercizi di stile. E vanno frequentati. Senza dimenticare che,
spesso non sappiamo quale versione del film abbiamo di fronte. Non
è grave: si tratta di un male comune nella storia del cinema
sovietico. Rispetto a questa rassegna,fa eccezione la famosa vicenda,
ormai chiarita, delle varianti de Il vecchio e il nuovo (1929, tit. v.o.: La linea generale) e quella meno famosa dell’inquisizione nei confronti de L’uomo con la macchina da presa
(Vertov, 1929). In tal senso i due film costituiscono sì
l’epitome di un periodo intenso, ma anche la sua fine. Ciò
vale in particolare per Dizga Vertov, che entro il ’30 abbandona
la causa dei kinoki. Sfuma così l’idea di un
cinema d’assalto, di cronaca e di puro montaggio. Agli antipodi
si situa, invece, il veterano Jakov Protazanov (1881-1945), che
traspone in studio il racconto fantascientifico dei moti su Marte: Aelita
(1925). Essenzialmente autodidatta, Protazanov fa gavetta
nell’ultimo periodo Romanov, All’indomani del Febbraio,
resta dalla parte dei ‘russi bianchi’ seguendone la rotta
fino a Parigi (1918). Nel 1923 su invito di una neonata impresa
semiprivata (Mežrabpomfil’m), è il secondo regista zarista
a rimpatriare a Mosca. Ma s’adatta con difficoltà, al pari
degli altri avanguardisti sempre meno autonomi. Sul finire del
decennio, incombe il ‘realismo socialista’. Ciò
minaccia non solo i singoli, ma anche i laboratori. Da principio si
distingue tra arcaisti e novatori. Poi chiudono gli studi. Aprono i
monopoli. Nel 1930 avviene una sorta di ritorno all’ordine.
L’esperimento dura meno di tredici anni. Iniziamo dal 1918. Sulle
‘morte macerie’ del cinema zarista da subito
s’innestano autonome produzioni, all’insegna di una prassi
finalmente esente dalla morsa censoria dei dicasteri. E’ il caso
de La signorina e il teppista (Slavinskij, 1919) dramma di un
teppista anarchico, che s’innamora e muore ‘di botte’
e di ‘vodka’. Con un Majakovskij maledettamente ribelle.
Dal 1919, anche dopo l’esproprio di Lenin, senza sancire dogmi si
tollerano influssi stranieri. Si parla persino di
‘americanite’, quando si sfrutta il modello americano.
Soprattutto quello della slapstick comedy sullo sfondo della breve parentesi di libero mercato (1921-1926). Un buon esempio è dato dai cortometraggi La febbre degli scacchi (Pudovkin, 1925) e Il frutto dell’amore (Dovženko, 1926). Due prove anomale nel repertorio epico dei due registi. Prima della propaganda (Il discendente di Gengis Chan,
1928), Pudovkin si cimenta con un film sul gioco degli scacchi, a mezza
via tra cronaca e finzione. Parimenti il vignettista Dovženko è
ai suoi esordi con un apologo sul ‘libero amore’. In un
clima autarchico di sfrenato lavorio per un cinema veramente
‘socialista’, i film si fanno e si disfano. Gli stilemi
anche. Ciò che accomuna la gran parte di questi lavori è,
piuttosto, un tema. Nulla di nuovo. Il nodo sta in un classico della
teoria marxista: il conflitto di classe. Com’è vero che lo
Stato non s’è estinto con la rivoluzione, così
l’antica questione delle classi persiste. Il cinema ne prende
atto.
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