Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna La Soffitta - Teatro 97/1 - Coro

I segreti del coro: due visioni

di Giuliano Scabia e Benedetto Marzullo

Al CORO come elemento generatore di VISIONI è dedicato questo duplice incontro, con il filologo classico e con lo studioso-artista, con il mondo dell'accademia e con quello della sperimentazione sul campo: entrambi spazi del pensiero e della ricerca, che non mancheranno perciò di rivelare utili intrecci e contaminazioni.

«È di comune dominio e al tempo stesso fonte di rimpianto il fatto che si sappia pochissimo sulle realizzazioni sceniche nel teatro di Dioniso durante il V secolo a.C. [...] Anche se [...] i tragici greci inserivano nelle battute del testo tutte le didascalie sceniche di qualche importanza [...], gran parte di ciò che potrebbe migliorare la nostra conoscenza riguardo alle messe in scena del V secolo rimane un mistero.

Uno degli aspetti più interessanti della questione riguarda il coro. Noi possediamo i testi dei canti che i coreuti intonavano, ma siamo praticamente all'oscuro sia per quanto riguarda la danza sia per quanto riguarda la musica che accompagnava questi canti. La pittura vascolare offre dei probabili indizi circa l'aspetto generale del coro, ma rimangono alquanto gratuiti i tentativi di ricostruire dei dettagli concernenti le coreografie e i movimenti che si mettevano in atto nell'orchestra.

Mancano testimonianze su ciò che il coro faceva quando non cantava, cioè per la maggior parte del tempo dell'azione scenica. [Una] questione più ampia [riguarda] come si disponesse il coro nell'orchestra in determinate circostanze. [...]» (J.F. Davidson, Il cerchio e il coro tragico, in C. Molinari, a cura di, Il teatro greco nell'età di Pericle, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 277-78).

«Tutti gli studi più recenti hanno escluso che il coro si mantenesse in formazione, per file e ranghi. [...] Per il V secolo le testimonianze [...] sono ampiamente sufficienti per permettere di immaginare una varietà ed una estensione coreografica capaci di occupare tutta l'area dell'orchestra. [...] Ciò che invece non sappiamo e che non si può dedurre dai testi è se l'azione coreografica del coro fosse limitata alla danza che accompagnava il canto degli stasimi, delle parodoi e dei kommoi, o se invece costituisse una sorta di continuo contrappunto dell'azione drammatica. In particolare importerebbe sapere cosa faceva il coro durante i dialoghi fra l'attore e il corifeo.

Molti registi moderni hanno scelto la seconda soluzione: in particolare [impostando] il coro come un corpo di ballo che accompagna senza pause l'azione. D'altra parte però l'affermazione di Platone secondo cui la danza nasce dalla parola e dal canto, e l'altra che dichiara assurdo l'uso della musica fuori della danza corale e del canto, come quello delle sole parole o della sola musica (Leggi, II, 670), sembrano indirizzare piuttosto verso la prima ipotesi.

La questione [...] propone due visioni del teatro greco, tanto possibili quanto alternative, anche se è chiaro che può esserci stato un abisso fra tragedie come le Supplici di Eschilo e quelle di Euripide. Nella prima ipotesi infatti il coro sarebbe un personaggio che interviene occasionalmente e i suoi canti dei veri e propri intermezzi, la cui funzione primaria è di ordine strutturale: dividere gli episodi o, come alcuni preferiscono dire, gli atti, introducendo una piacevole variazione di ordine prima metrico che contenutistico. Nell'ipotesi invece che l'azione coreografica del coro abbia una sostanziale continuità, essa apparirebbe come una sorta di riflesso, magari distorto o rovesciato, dell'azione drammatica, un riflesso però capace di diventare corposamente autonomo al momento dei canti, che potrebbero così assumere addirittura il valore di climax, ma forse solo dal punto di vista emotivo. [...]

Sappiamo che il coro ditirambico era composta di 50 membri, e non è impossibile che nelle tragedie più arcaiche esso fosse altrettanto numeroso [...]. Comunque in tutte quante le tragedie superstiti il coro doveva essere limitato a 12 o 15 membri, i quali [..] cantavano certamente all'unisono [...] col solo accompagnamento di un flauto. [...] Tutti sappiamo quanto sia difficile cogliere con relativa precisione sia le singole parole, sia il significato complessivo di un canto corale. Se ne dovrebbe dedurre che il pubblico ateniese poteva cogliere solo in maniera frammentaria e occasionale i valori poetici e verbali dei cori tragici, e quindi, a maggior ragione, non era in grado di intendere il contenuto di pensiero di brani come la parodos dell'Agamennone o il quarto stasimo dell'Antigone, in cui sembra concentrarsi la problematica filosofica e religiosa dell'autore. Per questo molti registi moderni hanno preferito evitare il canto all'unisono affidando al corifeo il compito di declamare il testo dei cori, o distribuendone le parti ai singoli coreuti.

Hegel, che vedeva nel coro quasi il momento di sintesi della tragedia, affronta l'argomento in modo paradossale, ma illuminante. [...] A lui [...] i cori di Eschilo e di Sofocle sembravano talmente complessi e difficili nel loro procedere logico, talmente tormentati dal punto di vista stilistico, da renderne quasi impossibile l'immediata intelligibilità, soprattutto per chi, come lo spettatore, non ha il tempo di "tormentarsi nella comprensione". E immagina allora che proprio il canto "poteva rendere più comprensibile il significato delle parole delle strofe, ché altrimenti non saprei come fosse possibile ai greci intendere i cori di Eschilo e di Sofocle". Questo può voler dire soltanto che il ritmo sopperiva all'assenza o all'oscurità dei passaggi logici, costituendo il vero filo che teneva uniti il ragionamento e le immagini poetiche, dando all'insieme un significato comprensibile e compiuto. [...] Ci si può chiedere cioè se il pubblico greco, grazie alla costante abitudine di ascoltare e di eseguire simili canti, non avesse sviluppato una particolare sensibilità per cogliere il valore della parola cantata, ovvero se il significato delle parole e del discorso, del lógos, non avesse nei cori che un'importanza del tutto secondaria rispetto al loro valore sonoro e musicale. [...]

Come tutti sanno, il coro perde progressivamente la sua importanza a partire dagli ultimi decenni del secolo V. [...] Resta il fatto che i primi drammaturghi sono anche, se non in primo luogo, maestri del coro. Resta che la formula ufficiale con cui il poeta si rivolge all'arconte, non è per chiedergli degli attori, ma un coro. Resta infine che, fra cori tragici, comici, ditirambici e satireschi, nei giorni delle Dionisie venivano impiegate non meno di mille persone. [...] I cori drammatici non potevano non prevedere una preparazione, e quindi una formazione e un'educazione tutte particolari, proprio perché il coro non bastava a se stesso, la sua azione alternandosi o intrecciandosi con quella degli attori, e il didaskalos, maestro di danza e di vita, proponeva una complessa, articolata e dialettica visione del mondo, della religione, della politica». (C. Molinari, Lo spazio della tragedia: la scena ateniese nel V secolo a.C, Introduzione a Il teatro greco nell'età di Pericle, cit., pp. 45-60).


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