Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Cimes - Programmi 2001Teatro
 

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anno accademico 2000-01
Andrej Rubliov tra cinema e teatro

di Livia Lupattelli

Il Tam teatro musica, formazione artistica padovana formata da Michele Sambin, Pierangela Allegro e Laurent Dupont, ha portato a Bologna il suo lavoro più maturo e convincente il Sogno di Andrej mirabile sintesi della molteplicità di linguaggi e di sinergia tra le arti. La scrittura scenica è di Pierangela Allegro, la composizione scenica di Michele Sambin, l'interpretazione di Marco Casotto, Alejandra Quintero Vega, Renzo Andrea Sanovia, Michel Sambin, Pierangela Allegro.
Il Tam ha realizzato una trasposizione teatrale del celebre film Andrej Rubliov di Andrej Tarkovskij il quale, in otto momenti diversi , ripercorre la vita del monaco russo Andrej Rubliov pittore d’icone vissuto tra il 1370 e il 1430 in una Russia messa a ferro e a fuoco dalle invasioni asiatiche. La storia si snoda intorno al dramma spirituale e artistico di Andrej, il quale costretto a uccidere un soldato straniero in difesa di una sordomuta, e dopo la condanna di eretico, viene rinchiuso in un convento, uscirà dal suo muto isolamento il giorno che incontra Boriska un ragazzo che fonda in maniera perfetta una campana, tutto ciò gli conferma che la sua fede nell’uomo non è vana.
In un atmosfera rarefatta un coro di voci rosso fiammeggiante, la musica soave di un contrabbasso, aprono la scena accompagnati dal canto nostalgico di Andrej, il quale in un crescendo di leggera tensione fonde il canto e la parola in forma di musica. Una cascata di sassi interrompe il silenzio, simbolo della inevitabile guerra e del nulla qui rappresentato da un asse di legno che oscilla nel vuoto come a scandire il tempo, il silenzio e il ritmo incessante dell’universo sempre in movimento.
Sullo sfondo nella semioscurità di sapore onirico, figure nobili di donne sfilano in abiti dai colori cangianti, appartengono a un mondo altro, ai ricordi lontani di Andrej che con il suo compagno vaga senza meta nella steppa di una Russia sconfinata proferendo parole che esaltano le virtù d’ascesi e sacrificio. Una luce accecante che avvolge una figura bianca femminile li sorprende: è l’allegoria dell’ispirazione pittorica, del libero arbitrio, l’immagine trasfigurata di Boriska, ella lo esorta a dipingere nuovamente e lo invita a realizzare il suo sogno.
Tre tele vengono fatte calare in scena come a segnare il ritorno di Andrej alla pittura che, insieme ai due compagni, inizia a coprirne di vernice colorata l’intera superficie; la scena come anche nel film dal bianco e nero si apre ai colori delle opere del pittore. Ricompare dietro una griglia di candele la bianca musa ispiratrice intenta a proferire senza tregua che "l’opera d’arte non deve essere una creazione intellettuale ma divina", "è il pittore a santificare le opere non sono le opere che lo santificano". Queste parole introducono l’atto di creazione della Passione in cui la sagoma di un uomo lentamente si scorge in trasparenza dietro la tela illuminata, come fosse disegnata, Andrej segue le linee di quella figura di uomo che lentamente scompare e prende forma l’immagine di Gesù crocifisso. La sovrapposizione delle due immagini rende la Passione: rappresentazione della sofferenza fisica e spirituale di Gesù Cristo, che da questo momento diventerà testimone silenzioso e vigilerà in un unico sguardo penetrante Andrej, l’attore e lo spettatore.
Dopo la fugace distraente apparizione di una sensuale fanciulla in cerca di ogni sorta di piacere, Andrej inizia a dipingere la postmoderna Vergine Maria lontana dall’ immagine iconografica della Madonna ma piuttosto Ma-donna di Touluse Lautrec che ostenta disinibita le sue forme. Al fervore mistico si sostituisce la festa pagana: ricompare di nuovo la fanciulla che inizia a sedurre con una danza magica uno dei compagni di Andrej, i due iniziano una corsa amorosa si inseguono, si sfiorano, si toccano fino a stendersi nella tela centrale e comporre con i loro corpi intrecciati nell’atto amoroso la terza creazione di Andrej ossia il Giudizio universale come in una performance di bodyart in cui l’artista diventa protagonista stesso dell’opera d’arte e la performance coincide con il performer stesso. Andrej continua a dipingere non più sulla tela ma direttamente sui corpi dei due amanti, i due amanti scompaiono, rimangono i segni sotto forma di mille colori dell’atto d’amore, tali segni astratti contengono il ritorno di Cristo sulla terra e la successiva fine del mondo, la glorificazione dei giusti e la condanna dei peccatori. La scena si chiude con la ricomposizione del coro rosso insieme a Andrej, tutti intenti a riportare le tele verso l'alto, poi l’assoluta oscurità.
La composizione dello spettacolo prende vita nel comporre che a sua volta dà vita a una composizione onnicomprensiva, tutto lo spettacolo segue il flusso della creazione in una sovrapposizione di linguaggi in cui la musica la parola detta, il canto, il gesto scaturiscono da una massa informe che è il materiale scenico e pittorico; in una frenesia epica alternata a delle visioni elegiache, si può parlare di una epifania moderna nel senso profano del termine.
 
Motus in giacca pitonata e occhiali scuri per l'Orfeo dei giorni nostri.
 
di Silvia Pischedda
 
Chi mai avrebbe immaginato il mitico cantore che, con la sua lira, riuscì a commuovere la regina dell'Ade, nei panni di una rock star?
Questo è ciò che hanno proposto i Motus al Link. Una rivisitazione in chiave moderna del mito di Orfeo e Euridice, a iniziare dal palcoscenico, che si presenta come un'abitazione dei giorni nostri, che domina su una città in miniatura.
Un forte simbolismo (forse in alcuni casi non del tutto comprensibile) è presente in ogni momento dello spettacolo e nella scenografia: un barbagianni imbalsamato, simbolo di morte; l'immagine della Madonna, emblema forse di un santuario in onore di una donna(quello che la casa di Orfeo è diventata); il rosso e il nero dei costumi, richiama al tema Amore e Morte.
Almeno così sembra, dato che nulla si può dare per scontato. Vediamo Orfeo: rock star, dissoluto, malato, quasi pazzo nei suoi movimenti, ora trascinati, ora violenti; apre la scena cantando, la continua urlando, poi accasciandosi, poi bevendo, come se il dolore e la disperazione andate lo scaraventassero a terra e poi lo risollevassero in aria, all'infinito.
Dice: "Vivo con un fantasma" e per tutto il tempo si hanno immagini di una donna bella e sensuale, vestita di rosso, a tratti volgare. Senza dubbio una provocazione; resa ancora più forte dal contrasto con l'immagine della Madonna; alla quale la compagnia non ha voluto rinunciare.
Orfeo sogna, rivede se stesso(in realtà un altro attore) nel passato, con la sua donna, quella donna che non è più con lui. Questa figura l'ossessiona a tal punto da portarlo ad indossare l'abito della sua amante per farla come rivivere attraverso il suo stesso corpo.
Un angelo, che di angelo ha ben poco, veglia sul protagonista e lo convincerà a oltrepassare lo specchio (altro elemento simbolico), passaggio che collega il nostro mondo a quello dell'ignoto e dietro il quale l' immagine di Euridice si è fermata per sempre.
Orfeo saluta il suo angelo e se stesso, quello che lui era, vestito di rosso e nero: la cieca passione per Euridice e la sua morte non accettata. Adesso è pronto per attraversare lo specchio.
Finisce lo spettacolo, ogni interpretazione è possibile, poche le ovvietà e nella confusione in cui lo spettatore è gettato, l'unica certezza è che valeva la pena intraprendere la lotta fuori dal teatro per assicurarsi un posto.
Orfeo: morte di un eroe
o nascita di un mortale?
Dissacrante. Provocatorio. Ostentato: ai limiti l’Orfeo di Motus

di Tiziana Longo

Uno spettacolo da elettrochoc con mille colpi di scena.
Un "sensazionalismo" quasi perfetto che rischia di scadere nell’ovvio.

È l’Hangar l’ennesimo esempio di come Motus riesca a teatralizzare uno spazio quotidiano quale l’ex mercato ortofrutticolo adiacente al Link, prova di un percorso che la compagnia segue da anni, creazione di eventi unici concepiti per spazi anomali. Dopo un sentiero buio e tortuoso abitato da aborti metallici entriamo in un capannone industriale. La luce fioca di qualche candela e di un’unica lampadina avvolta da un nastro isolante verde, effetto psichedelico. Biglietteria e angolo bar sono il risultato di arrangiamenti rudimentali così come una sorta di separé fatto di piante sintetiche che ci impedisce di avvicinarci al palcoscenico-set. Dopo una lunga attesa ci accomodiamo. La scenografia colpisce sin dall’inizio. È quella di un interno con soppalco arredato in stile postmoderno. I colori sono molto accesi e predomina il rosso fuoco delle pareti. In ogni camera vi è un pennuto. Tutto è curato minuziosamente, come se sotto questo minimalismo simbolico si nascondesse chissà quale grande significato. È inoltre possibile collocare lo spazio del teatro in un tempo riconoscibile e riconducibile ad un ventiquattro dicembre pre-natalizio. Poi lo spettacolo ha inizio e così anche un tessuto ricco di suoni quotidiani. Si tratta di un Orfeo moderno che di attinente all’originale ha ben poco eccetto il subire la morte della sua donna, Euridice; di un lavoro più sulla metafora del mito che sulla sua storia. Egli è infatti una rock-star dell’inframondo, un bohemien, una variante di poeta maledetto che cita Rilke, canta Cave e che nel momento stesso in cui realizza la morte della donna che ama scoppia di dolore, si strugge, canta l’urlo della morte che ha dentro. Forse è la cruda scoperta che anche il mitico Orfeo ha la sua parte imperfettamente umana, che può lasciarsi morire se a spegnersi è la passione di cui si nutre, quella per la donna che ama. Da qui lo spettacolo non sarà che la distruzione dell’eroe, del tempo interiore della sua perdita che va lentamente destrutturandosi, che si fa ora sogno, ora incubo, ora ossessione, fino a corrodere del tutto la linea di separazione fra il visibile e l’invisibile, fra teatro e cinema. E non è di certo facile ricreare in uno spazio teatrale un tempo cinematografico: questo l’obiettivo primo di Motus, che si serve per riuscirci di una porta scorrevole cangiante posta al centro della parete frontale, elemento di collegamento e spaccatura tra il mondo terreno e il mondo divino, specchio di introspezione e autoanalisi in cui Orfeo smonta la sua psiche, luogo della memoria e del ricordo di Euridice sposa, poi di Euridice e Orfeo nell’intimità e infine di Euridice morta. Per tutto lo spettacolo Euridice vaga nella mente di Orfeo come un fantasma, in compagnia delle incursioni "apparizioni-sparizioni" di un angelo della morte e di un altro uomo, l’Orfeo che fu di colei che prima appare, poi scompare, poi riappare per infine ricomparire. Vive come se ci fosse e non ci fosse. E Orfeo disperato perché non può più rincontrarla ne è ossessionato a tal punto da infilarsi il suo abito rosso lungo e sensuale, i suoi tacchi, la sua parrucca. La vede persino come una Madonna e a Motus piace moltissimo ironizzarci su. Anche perché pare che il blasfemo nonsense faccia tendenza. Questa logica con cui sono state concepite scene quali quella dell’accendino-crocifisso ("Dio non mi abbandona mai!") o quella di Orfeo che sfoggia nella sua custodia da chitarra una statuetta della Madonna ricoperta di petali. Ma al blasfemo si aggiunge il kitsch, una serie di piccole cose di pessimo gusto: dalla sindrome del Big Brother di una toilette dalle pareti opache ai bisogni fisiologici impellenti soddisfatti in diretta, dall’erotismo spicciolo alle impurità linguistiche, Inglese, Francese et voilà les jeoux sont faits! Ladies and gentlemen welcome to Orpheus glance. Eroe allucinante o uomo allucinato?

Riflessi nello sguardo di Orpheus
Appena prima dell’inferno. Atto conclusivo.
 
di Enrico Cagalli
 
Hangar del Link Project ed ex del mercato ortofrutticolo. Da fuori un grande e dismesso edificio industriale. Mi ricordo di Occhio-Belva nel contesto di Prototipo all’Interzona. Là lo spazio sembrava infinito, i confini dell’edificio si perdevano nel buio, dove lo sguardo non va a cercare. Ma stasera ci aspetta qualcosa di nuovo, di diverso: lo spettacolo che emblematicamente ripropone l’estetica Motus per rilanciarla su nuovi piani di visione, d’ascolto e suggestione, presenta, per la prima volta nella storia della compagnia, l’idea di lavorare su un interno e su un certo naturalismo. Quella di Orfeo è una vera casa "magica". Due piani, aperta sul fronte, con camera, studio, bagno, cucina, salotto, grande specchiera al centro. Una dimensione realistica, ma forse il termine più adatto è cinematografica. E’ un lavoro su tagli e frammenti all’interno di uno spazio unico diviso per ambienti. C’è un policentrismo di situazioni che compaiono e spariscono sotto l’influsso delle luci. Orfeo vive tutto il tempo - un tempo beckettiano di solitudine - e attorno a lui gli oggetti si ribellano, creano fratture, come in un grande quadro medievale ispirato all'estetica pop e kitsch attuale, dove tante cose si sommano, si sovrappongono, svaniscono. Un melodramma barocco postmoderno, eccessi e accostamenti azzardati, ricchezza di dettagli e ricercatezza di effetti.
Lo spettacolo inizia dopo la morte di Euridice. Un requiem blues dà il via alla consumazione di un tempo intimo e solitario che va lentamente destrutturandosi, si fa sogno, incubo, ossessione; corrode progressivamente la linea di separazione fra reale e irreale, visibile e invisibile e soprattutto confonde tra teatro e cinema. Rimandi tra uno specchio e l'altro, attraverso velature agitate dal vento, l'oggetto e lo sguardo si annientano reciprocamente. Solo la linearità altalenante del suono scandisce la ritmica del tempo scenico conferendo fluidità. È un quasi musical, a sorpresa si nota un lavoro sui dialoghi, anche cantati, come mai prima per Motus. Orfeo è una figura fonocentrica. Tutto è legato a una strettissima riflessione sull’interazione fra musica classica e musica elettronica per creare una ritmica di sovrapposizione e complicazione di melodie, di strane assonanze e dissonanze. Motus elabora al computer le sonorità dell’allestimento dove anche le parole delle canzoni fanno parte del testo teatrale. I "versi" di Nick Cave sono drammaturgia.
Orfeo/Cave, una cupa rockstar dell’inframondo, "bella e dannata", figura della metamorfosi, del mutamento. Canta. Soffre. Un personaggio profondamente combattuto, spaccato internamente. Eternamente ossessionato, combattuto fra un immaginario religioso e una tendenza alla perdizione, alla dissoluzione. È un’immagine di Orfeo costruita come una figura vicina al noir americano, anche in senso un po’ ironico. Influenzata dai film di Abel Ferrara (alcuni frammenti costituiscono la colonna sonora – così come dall’Orfeo di Cocteau) ne presenta tutta la tensione tra natura e cultura, tra cielo e terra.
"Orpheus Glance è il momento in cui ogni cosa torna" ha dichiarato Daniela Niccolò.
In questo spettacolo, infatti, ritorna tutta la ricerca Motus degli ultimi due anni, ritorna trovando un assestamento interno. Il rapporto con la casa, con il tempo, con gli oggetti, con piccole manie. Con l’assenza di una figura femminile: Euridice, una Madonna che compare e scompare come segno di un passato vissuto assieme a Orfeo, con la consistenza di un ricordo. E insieme a tutto questo torna anche il discorso sullo sguardo che Motus affronta da molto tempo in una personale ricerca costante. Il progetto è partito nel '98 a Sarajevo dove si è tenuto il primo workshop della compagnia, lavorando con 24 giovani attori balcanici sulle Elegie Duinesi di Rilke. Da lì si è sviluppato un percorso attraverso una serie di eventi intermedi, ma in sé anche conclusi, sulla maniera di porsi attorno alla visione di Orfeo. Alla fine, è arrivato lo spettacolo teatrale vero e proprio, da palco. Il confronto con il tempo della scena e con il pubblico seduto in platea. Sperimentando il rapporto con lo sguardo dello spettatore. Ne è nata una serie di studi, Étrange, Etre Ange, Étrangeté lo sguardo azzurro. Le prime due schegge di cielo sono state presentate a Urbino dove c'era principalmente un lavoro fisico da parte degli attori su un tappeto sonoro, senza testo. Nell'esperimento di Santarcangelo il pubblico era all'interno dell'ambiente, aveva uno sguardo diretto sullo specchio e sulle visioni al di là di esso. Qui, lo sguardo si sposta dallo spettatore a Orfeo. È lui a relazionarsi con lo specchio e con i mondi al di là dello specchio che, peraltro, riflette anche il pubblico seduto di fronte a uno spettacolo che ha una durata e che dall'annuncio della morte di Euridice sviluppa il rapporto di Orfeo con il fantasma che vive all'interno della casa. Lo sguardo indietro di Orfeo è stato usato come metafora. Può essere possesso distruttivo o perdita. Un occhio rapace la cui violenza del desiderio fa subito sparire il volto di Euridice.
È solo la parola, alla fine, che svela il volto di Euridice, prima del suo definitivo svanire e rende possibile il ricongiungimento degli amanti al di là dello specchio.
 
TEATRO INESAURIBILE
 
di Elisa Fontana
 
Da un "occhio belva" ad uno "Sguardo di Orfeo": "coerenza testarda e creativa di una ricerca visionaria nel ridisegnare spazi [...]"" questa la motivazione del Premio UBU Speciale conferito nel 1999 a Motus, Nucleo di lavoro fondato nel 1991 da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. Teatro visionario, evocativo, da fruire denudati di qualsiasi pretesa categorizzante, desiderosi di lasciarsi penetrare dalle cose della scena e di compiere un viaggio all’interno del lavoro. Una sfida alla ricerca di senso. Un’immersione nell’extra - quotidiano per entrare nel quotidiano di un’altra realtà.
Ricordo quell’Occhio belva all’Interzona di Verona, spettacolo allestito per il progetto Prototipo nell’ottobre1999 in una ex cella frigorifera tappezzata di lamiera freddamente luccicante di un bagliore livido, che racchiudeva un mondo altro, lento, scandito dall’oscillare di massi appesi al soffitto da corde lunghissime, dal dondolio serio e imponente di due figure vestite di bianco in piedi su altalene lunghissime. Ricordo rumori, suoni distorti e lontani, ma immensamente presenti lì, ad accogliere uno spettatore incuriosito, leggermente intimorito, pauroso di disturbare, forse, estraneo, dominato, impotente. Corpi, luci, suoni, movimenti, espressioni, ecco cosa si presenta al povero intruso. "Che cos’è?", "Cosa significa?", "Ma cosa fanno?"…e intanto guarda, incuriosito, l’ospite, ignaro di quello che accadrà. Ogni convenzione, ogni sicurezza è sconvolta, distrutta. Ogni aspettativa disattesa. Non resta che abbandonarsi ai sensi. Perché è proprio un’invasione sensoriale che i Motus desiderano provocare nel loro pubblico; un pubblico che esce frastornato, un po’ scosso, incapace di capire cosa gli sia successo. Molto gli è stato comunicato…sconosciuta la lingua e quindi il senso di tutto. E proprio chi ne ricercava un senso ne esce deluso con la frase più enigmatica che possa essere pronunciata a commento di un evento teatrale: "Non ci ho capito nulla!".
Enigma che cela questioni da lungo tempo dibattute, e che io stessa mi pongo di fronte a tanto teatro contemporaneo. Supponendo che il teatro sia una forma di comunicazione e inserendo quindi l’evento nello schema semiotico classico che pone in relazione emittente e destinatario attraverso un canale comunicativo, che contiene un messaggio da codificare e decodificare, sorgono una serie di considerazioni sulla fruibilità dello spettacolo da parte dello spettatore. Considerando inoltre che l’opera d’arte è definita polisemica, ovvero capace di generare, con lo stesso segno, significati diversi, spesso si incorre in quella pretesa di libertà interpretativa assoluta che fa perdere di vista la volontà, da parte dell’artista, di mettersi in relazione con lo spettatore (posto che questa volontà esista). Ferdinando Taviani espone un concetto interessante a questo proposito: "far capire uno spettacolo non è progettare scoperte, ma disegnare, progettare gli argini lungo i quali navigherà lo spettatore" . Questi argini però devono essere ben definiti, altrimenti sorge il rischio di ingenerare una sovrapposizione di canali interpretativi a cui non si sa più quale codice applicare, e lo spettatore esce dallo spettacolo con un senso di vuoto, di mancanza, di in - comprensione. Non è riuscito a trovare la porta giusta per lasciar entrare lo spettacolo dentro di sé.
"L’occhio belva" dei Motus si è posto nel canale visuale-evocativo e, mantenendosi lungo quella linea ha dato la possibilità allo spettatore di decodificare quei segni in modo preciso, anche se sicuramente secondo interpretazioni diverse per ogni persona.
Diversa la sorte del più recente spettacolo "Orpheus Glance: sguardo di un Orfeo di cui ascoltiamo il canto e vediamo l’immagine riflessa nello specchio della sua casa abitata dal fantasma della sensuale Euridice. Interno medio-borghese, natalizio grazie al quale il gruppo romagnolo abbandona quella presenza fortemente fisica legata allo stare, all’occupare un tempo ed uno spazio, a quell’esserci che portava quasi l’evento teatrale ad una colonizzazione dell’ambiente, ad una presa di potere totale. Ora lo spettatore non è più ospite di un mondo, ma guarda, spia dall’esterno la vita di Orfeo, dell’angelo caduto Heuterbise, di Euridice morta ma presente. Non più vissuta, ma osservata, la scena si presenta frontale, separata dal resto dello spazio in cui viene relegato l’ospite, a cui stavolta viene concesso solamente di spiare ciò che avverrà nella casa di Orfeo. Spettacolo che riprende gli stilemi visionari dell’ "Occhio belva", ma che apre uno spiraglio alla narrazione, all’entrata in scena del personaggio. Scelta consapevolmente audace, dettata da una "necessità di allontanamento, di presa di distanza dalle troppe pseudo - teorizzazioni sul teatro del corpo che ci sono state appiccicate addosso con troppa leggerezza ", come afferma la stessa Daniela Nicolò.
Nasce così un pericoloso intreccio fra canale narrativo e canale visuale, il cui delicatissimo equilibrio viene faticosamente sostenuto, fra i dialoghi in francese, in inglese e in italiano, naturalistici perché volutamente cinematografici e forse forzatamente accostati all’impatto evocativo e visuale di tutte le componenti dello spettacolo. Lo spettatore si trova forse leggermente spaesato di fronte ad una così vasta ricchezza di linguaggi poco calibrati nel loro essere incastrati strettamente l’uno con l’altro. Si impone una scelta imbarazzante di fronte ad uno spettacolo che offre un coinvolgimento sensoriale notevole, ospitando nella sua casa già ricca di simboli, Orfeo, "il mitico, cupa rockstar dell’inframondo, che mette in bilico le certezze, che vive in simbiosi con il qui e l’ora del teatro e l’intervallo, la pausa, il deep nothing dell’imprevedibile". Per questo moltissimi spettatori sentono l’esigenza di rivederlo…perché ogni volta che si entra nella casa di Orfeo si scoprono cose nuove, si creano nessi diversi tra gli oggetti e i loro simboli. Orpheus Glance: uno spettacolo inesauribile.

ORPHEUS GLANCE

 

di Simonetta Fallini

 
Suoni inquietanti di animali esotici invadono la sala e catturano l’udito rivelando misteriosi mondi. I rumori, anche i più piccoli, vengono amplificati a dismisura fondendosi con cinguettii di uccelli e il gracchiare di corvi celati.
Protagonista è Orfeo, rivisto in chiave decisamente moderna: pantaloni di pelle nera, camicia di seta e giacca pitonata. Ha una voce profonda e seducente che accoglie il pubblico e lo introduce alla messa in scena: un magico canto capace di zittire il tumulto prodotto dagli animali della foresta.
La scenografia consiste in un appartamento dei giorni nostri, visto in sezione, con elementi che richiamano il quotidiano.
Sul fondale della scenografia, in centro, si staglia una struttura composta da due ampi vetri scorrevoli: è uno specchio, ma subito dopo è una vetrina dalla quale si possono osservare diverse scene della vita di Orfeo e della sua amata; oppure scompare in un nero fondale.
Si accende una luce in una camera e i spegne nell’altra: in questo modo viene guidato lo sguardo dello spettatore, in una giostra di sorprese e emozioni.
Caricato di funzione simbolica è l’uso del colore: il rosso è continuamente riecheggiato negli oggetti sparsi per la casa, nell’abbigliamento e nelle pareti che improvvisamente si tingono di un rosso carminio.
Interessante il sogno di Orfeo, rappresentato nel salotto, mentre Orfeo dorme inquieto al piano superiore: una scena erotica di seduzione dove un’emancipata Euridice è alle prese con un gioco focoso nei confronti dell’alter ego di Orfeo. Quest’ultimo, uscito dalla fase onirica, indossa gli abiti della bella Euridice, e una parrucca, quasi volesse rievocarla in una specie di rito.
Oltre alla visione dell’appartamento in sezione, nella zona centrale adiacente al pubblico abbiamo una piccola città in miniatura, fra le cui case vi è anche quella di Orfeo vista dall’esterno, quasi a voler suggerire una molteplicità di punti di vista. Per tutto l’arco della messa in scena il concetto del Tempo è affrontato con continui salti dal passato della leggenda al presente della rappresentazione, ripercorrendo la vicenda personale di un amore.

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