Archivio Storico:- ex Dipartimento di Musica e Spettacolo - Universita' di Bologna Ricordo di Kazuo Ōno


Ricordo di Kazuo Ōno
di Eugenia Casini Ropa


“My soul will lead the way. With every step I take, my flesh is slowly withering away. I’ll soon leave this world behind. How does one dance without body? Don’t be afraid, in the hereafter we can continue to dance as a spirit, as a ghost. A ghost dance is so truly beautiful, so beautiful, in fact, that one completely ignores that it lacks a material form. Even on taking leave of my flesh and bones, I want to continue dancing as a ghost” (Kazuo Ōno).

kazuo onho

Kazuo Ōno, grande e inimitabile padre della danza moderna giapponese Butō, è morto a Yokohama, il 1° giugno 2010, all’età di 103 anni. Nella sua lunga vita, ha commosso e influenzato con la sua genialità alcune generazioni di danzatori e artisti di tutto il mondo, avvicinando, come pochi hanno saputo fare, le due culture orientale e occidentale.
Pareva non voler più morire; da anni ormai, pareva essersi fermato caparbiamente sul sottile e impalpabile confine tra la vita e la morte, su quel limite che egli aveva, in fondo, sempre negato. “La vita e la morte sono indissolubilmente legate… Paradossalmente, il nulla e l’esistente sono la stessa cosa. Nel giardino dell’Eden non c’è nulla e nello stesso tempo c’è tutto, come nell’utero materno… Vuol dire che il nulla non è vuoto”. Ora Ōno si è felicemente inoltrato in quel vuoto colmo di vita, traboccante del mistero dell’esistenza.

La vita
La sua storia di artista comincia da lontano e, come per quasi ogni pioniere della danza moderna, con un episodio rivelatore. L'aneddoto vuole che, ventenne, insegnante di educazione fisica, vedendo la sua immagine riflessa nello specchio di un grande magazzino ne rimanesse d'un tratto profondamente turbato. Che cosa si nascondeva oltre quella insoddisfacente apparenza esteriore e come portare alla luce quell'interiorità che, sola, poteva rigenerare la carne?
In quegli stessi anni, la conversione al cristianesimo gli fa conoscere nuove, profonde fonti di spiritualità che non abbandonerà mai più. Poi, nel 1929, vede a teatro La Argentina, la grande danzatrice spagnola che gli rivela la via della danza; a lei dedicherà, cinquant'anni dopo, il suo spettacolo di maggior successo internazionale.
I vent'anni che seguono sono dedicati allo studio della danza. Colpito da uno spettacolo di Harald Kreutzberg, compie i suoi studi prevalentemente con Takaya Eguchi, allievo di spicco di Mary Wigman, che aveva portato e diffuso in Giappone i dettami dell'espressionismo tedesco. Ma solo nel 1949, a quarantatré anni, comincerà ad esibirsi in pubblico con una serie di pezzi brevissimi e singolari.
L'incontro decisivo per la definizione del suo stile di danza sarà tuttavia, nel 1954, quello con Tatsumi Hijikata, che divenne il suo coreografo. Anche Hijikata, assai più giovane, aveva avuto un maestro di scuola espressionista e la sua ricerca seguiva sentieri paralleli a quelli di Ōno, benché assai più radicali nell’assunto politico di ribellione agli stereotipi sociali, morali e artistici. Entrambi sentivano il bisogno di andare oltre le tecniche moderne occidentali e gli stilemi della tradizione giapponese, con le loro estetiche colonizzatrici o sclerotizzate.
La metamorfosi, la ricerca di un corpo involucro in grado trasformarsi, sotto l’impulso dell’energia creatrice e modellatrice che dà vita ad ogni cosa nell’universo, per divenire altro da sé, nuova entità di cui irradiare lo spirito, divenne il compito primario della danza di Kazuo Ōno.
Le loro prime performances furono brevi e provocatorie: nel 1959 Kinjiki (Colore proibito) di Hijikata, dove per la prima volta si esibì il giovane Yoshito, figlio di Ōno, scandalizzò il pubblico, mentre Kazuo presentò Il vecchio e il mare, ispirato ad Hemingway. Con questo solo e con il successivo Divine (1960) ispirato a Genet, Ōno raggiunse la piena consapevolezza delle sue possibilità, di come ogni minima esperienza vitale spirituale potesse crescere ed espandersi abbracciando l'universale e reinventando la vita di un corpo negato. Insieme, i due crearono ancora I canti di Maldoror (1960), La cerimonia segreta di Ermafrodite e Torta di zucchero (1961), Danza rosa (1965), Sesso: istruzioni per l'uso e Tomato (1966).
Nel 1968, La rivolta della carne di Hijikata fu lo scandaloso spettacolo-manifesto del nuovo genere che egli stava proponendo: l'Ankoku Butō, la “danza delle tenebre”. E' un provocatorio grido di rivolta contro le estetiche ufficiali, contro l'impeccabile comportamento imposto ai giovani dai costumi giapponesi, contro le mode standardizzanti importate dall'occidente, contro il corpo mercificato della società contemporanea. Introverso, doloroso, il Butō nascente rattrappisce e contorce il corpo alla ricerca delle forme arcaiche e terrose dei contadini delle risaie o degli animali, nascoste sotto l'involucro della carne marchiata dalla storia e dalla quotidianità. La cosciente spersonalizzazione dei corpi seminudi è accentuata dai crani rasati e dalla tinta bianca che li ricopre, mentre la carne, annullata e mortificata, è sottoposta a una lucida crudeltà che supera i sogni di Artaud. Il Butō recupera la lentezza, la tensione, la microgestualità dell'antica tradizione nazionale del Nō e del Nihon Buyō, la danza del Kabuki, facendo implodere verso l'interno le energie centrifughe proprie dell'eredità espressionista europea. Nascono gli stilemi tipici del genere: ginocchia flesse, piedi in dentro, occhi bianchi dalla cornea esposta, spalle chiuse e abbassate, bocche spalancate in urli muti.
Kazuo Ōno prosegue la sua via al Butō in modo parallelo ma appartato; il suo stile inconfondibile, pur accordandosi alle scelte dell’esposizione impietosa del corpo e del grottesco, evita gli eccessi dilacerati di altri danzatori; nei suoi soli c'è sempre una vena di attonita poesia, di surreale lirismo, di fede profonda nelle forze vitali dell'universo che si nutre della sua profonda fede cristiana. Gli diventa consueto agire in abiti femminili, creando indimenticabili personaggi ermafroditi coronati di fiori o di grandi e adorni cappelli. Le sue performances sono un susseguirsi di immagini in continua trasformazione, montate per analogia o giustapposizione, finestre aperte nel cuore tenebroso del Butō su uno stralunato mondo luminoso di fantasmi dell'anima, misteriosamente sospesi tra la vita e la morte.
Negli anni Settanta, il movimento del Butō si scioglie in rivoli e gli allievi di Hijikata creano gruppi di tendenze differenziate diffondendosi anche in Europa. Kazuo Ōno invece abbandona quasi completamente il teatro, limitandosi a girare col regista Chiaki Nagano alcuni film sperimentali: Ritratto di Mr. O (1969), Il Mandala di Mr. O (1971) e Il libro di un uomo morto: Mr O (1973), anch'essi poetici e surrealisti, attraverso i quali precisa definitivamente il proprio immaginario simbolico, portandolo a piena maturità.
Tuttavia, nel 1976, a settant'anni, il suo non sopito amore per la danza viene rinfocolato da un secondo, fatidico incontro con La Argentina, la cui immagine pare balzargli incontro dal quadro di una esposizione. Da questo improvviso risveglio delle memorie di gioventù, nasce il suo spettacolo più famoso, Omaggio per Argentina, che segna il suo memorabile ritorno alle scene e che, dal 1980, a settantatré anni, lo farà conoscere in Europa e nel mondo. Seguiranno alcune altre performances sul filo della memoria, come Ozen. Il sogno di un feto (1980), Mia Madre (1981), Ninfee (1987), Fiore, uccello, vento e luna (1990). Da allora Ōno non ha più lasciato il palcoscenico, che ha calcato fino a novantacinque anni, col suo vecchio corpo metamorfico e il robusto sostegno e contributo del figlio Yoshito, ora erede e prosecutore originale della sua poetica. Con lui, inoltre, ha per decenni accolto nel suo studio di Yokohama giovani allievi provenienti da ogni parte del mondo, ai quali ha trasmesso la sua filosofia di vita e di danza, coltivando in loro il fiore della creazione artistica.

La danza
kazuo onho Chi ha avuto la fortuna di veder danzare Kazuo Ōno, non potrà certo mai dimenticarlo. Fino alle sue ultime apparizioni in scena, ciò che si presentava allo spettatore aveva il sapore del prodigio.
L'incredibile avveniva sotto i nostri occhi. Un piccolo corpo tormentato di vecchia bambola denudata, sopravvissuta a stento alle angherie di qualche generazione di bambini crudeli, un fragile, stanco e tragico Pierrot infarinato dimenticato nella cesta del burattinaio prendeva vita a fatica, dolorosamente. Una fiammella invisibile cominciava a riscaldare e ad animare dall'interno la carne spenta, si espandeva e la muoveva suo malgrado, imponeva alle braccia di alzarsi, alle ginocchia di piegarsi, alla bocca di aprirsi. E da questo sforzo lentissimo, crudele, a poco a poco nasceva il miracolo; la nostra percezione dilatata sembrava aprirsi all'improvviso su di un altro mondo e su altre vite: un bocciolo che tenta di aprire i suoi petali gracili; un feto che scopre ed esplora con meraviglia il mondo acquatico che lo circonda; la vita che rinasce eternamente dopo la morte.
Questo ed altro ancora Kazuo Ōno sapeva creare ancora a novant'anni per gli spettatori, solo, in un grande palcoscenico vuoto che si colmava della sua incredibile presenza.
"La danza - diceva Ōno, che ne ha fatto una vera filosofia di vita - deve essere capace di rappresentare l'universale nella sua più pura e più astratta espressione. Come i rami di un albero crescono verso il cielo soltanto se le sue radici sono ancorate alla terra, così la danza deve penetrare nella profondità dell'esistenza quotidiana. Se rimane troppo concentrata sulla vita di ogni giorno ci ricorda il mimo e non può far luce sulla confusione della realtà. Se è troppo astratta, ogni connessione con la realtà scompare e il pubblico non riesce ad esserne toccato".
"Se desideri danzare un fiore puoi mimarlo e sarà un fiore qualunque, banale e privo di interesse; ma se tu metti la bellezza di quel fiore, e che da esso viene evocata, nel tuo corpo morto, allora il fiore che crei sarà vero e unico e il pubblico ne sarà commosso".
Nel suo sforzo quasi mistico di rivelazione dell'essere, di creazione di un mondo che è incontro con le fonti vitali, Ōno utilizzava costantemente due concetti chiave: quello di "corpo morto" e quello di "libertà", il cui connubio è apparentemente sconcertante. Il corpo morto, negato, è per lui il presupposto essenziale, il primo fine da raggiungere per far sì che l'emozione in esso coltivata possa esprimersi liberamente, senza essere costretta a seguire le logiche coercitive necessariamente imposte da un corpo vivente. L'anima deve poter manovrare il corpo come un burattinaio manovra una marionetta.
La libertà che ne nasce per il danzatore è da intendersi in senso tutto orientale. Non si tratta infatti di libero arbitrio, di fare ciò che si vuole, ma al contrario di liberarsi dalle pastoie della volontà, dalle strettoie del pensiero e dell'individualità. Per attingere all'universale, occorre frantumare il rigido carapace di convenzioni che l'esperienza sociale ha costruito sul corpo e nella mente e lasciar finalmente fluire all'esterno l'espressione pura dell'anima.
“Cerco di muovermi inconsapevolmente, prima della tecnica, del desiderio o del pensiero. Cerco di muovermi come si muove l’anima”. “Solo allora - diceva il poeta Ōno ai suoi allievi - tu sei felice perché sei libero. Sorridi, e un fiore sboccia nella tua bocca".

La memoria
Il 27 ottobre 2001, in occasione del suo 95° compleanno, Kazuo Ōno firmava nel suo studio, a Yokohama, la convenzione con la quale concedeva al Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università degli Studi di Bologna una copia completa del suo archivio personale, allora in via di completamento. Documenti, immagini, testimonianze, riflessioni, creazioni di un'intera, lunga vita nell'arte, che vi erano raccolte in un prezioso tesoro di memorie biografiche e artistiche, venivano così generosamente messe a disposizione degli studiosi e degli estimatori italiani ed europei.
Completato e continuamente aggiornato nel tempo, oggi l'Archivio Kazuo Ōno bolognese rimane il solo punto di riferimento in Europa per la documentazione, gli studi e le ricerche sul Maestro e la sua attività, così come sulla danza Butō: danzatori e ricercatori - di ogni età e nazionalità, ma soprattutto giovani studenti - lo frequentano per immergersi nel fascino di una vita e di una danza in apparenza molto lontana dallo spirito occidentale, ma in realtà profondamente vicina a chi cerca nel fare artistico una profonda motivazione poetica, una vera filosofia dell'essere nel mondo.
Per il visitatore dell'Archivio, il mondo danzante di Ōno rinasce per gli occhi e si incide nella mente attraverso la visione delle tante registrazioni audiovisive di spettacoli e documentari, della collezione di manifesti memorabili con le immagini dei più celebri fotografi del Giappone, dei libri in lingue disparate, delle decine di files colmi di centinaia di fonti di ogni tipo: scritti e disegni autografi del Maestro, fotografie, materiali di sala, articoli, saggi e recensioni di ogni parte del mondo, documenti privati e pubblici, ecc. Molti studenti elaborano su questi materiali le loro tesi di laurea e di dottorato - che stanno avviandosi a costituire un reparto davvero interessante e in continua evoluzione dell'Archivio - così come molti giovani danzatori si confrontano con un Maestro centenario, che non cessa di essere fonte vitale di ammirazione e ispirazione per le nuove generazioni. La trasmissione della memoria, che nella tradizione del teatro giapponese avviene direttamente da maestro ad allievo e che sempre nella danza si realizza "oralmente", da corpo a corpo, qui trova canali certo più precipuamente mentali, ma gli stimoli visivi e uditivi che coinvolgono il visitatore non mancano di instaurare una sinestesia partecipe, un'empatia capace di condurre ben oltre la comprensione intellettuale.
Così come il corpo antico di Kazuo Ōno, arato e inciso dai mille solchi di cent'anni d'esperienza di vita e d'arte, quasi annullato nello sforzo - divenuto modo spirituale d'esistenza - di lasciarsi animare dall'interno da un soffio vitale di portata cosmica, si lascia leggere come memoria incarnata, in vita, il corpus ramificato delle tracce depositate della sua esistenza, raccolte nell'archivio, può e vuole essere letto, nel proposito dei suoi curatori, come materia fissata ma vivente, pulsante dell'energia del ricordo e costantemente rianimata dalla continua rivisitazione e dalla feconda rielaborazione dei suoi contenuti.

 


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