SignificAzione Stampa

///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
di Luca Di Tommaso
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Che cos’è “SignificAzione”?
“SignificAzione” è una rubrica dedicata al rapporto tra semiotica e teatro oggi. Alla sua inattualità, alla sua storia, al suo futuro. Una rubrica che non solo opportunamente ma necessariamente trova collocazione all’interno della rivista “Culture Teatrali” di Marco De Marinis, centro propulsore di diverse tendenze di studio all’interno del panorama delle discipline dello spettacolo, che già dal suo titolo invita alla riflessione sul teatro come pratica culturale e quindi come luogo di incontro di diverse prospettive interpretative.
Semiotica e teatro, ma anche semiotica del teatro, per quanto inattuale possa risultare la locuzione. Genitivo in senso soggettivo e in senso oggettivo. Semiotica del teatro come semiotica prodotta dal fare teatro: come il fare cultura proprio del teatro. E dall’altro lato, teatro preso a oggetto di studio dalla semiotica intesa come scienza dei processi di significazione.
“SignificAzione” è una crasi che vuole render conto delle potenzialità significative non del teatro in quanto ripetizione, replica, rappresentazione, letteratura, bensì dell’Azione teatrale, dei suoi dispositivi e dei suoi corpi, cioè della dimensione concreta, fattiva, attiva, efficace, influente del fare teatrale.

Le ragioni di una rubrica
Semiotica e teatro sono i termini di un binomio che ha oggi scarsa fortuna ma che in tempi non remoti costituiva il riferimento obbligato per chiunque frequentasse le discipline dello spettacolo.
Come tutte le mode, che fanno il loro tempo, anche lo studio dei linguaggi ha fatto il suo. Né in ambito semiotico, dove oggi l’impostazione più diffusa è quella semiotico-generale e su questa base si rifiuta come teoricamente inopportuno lo studio dei linguaggi specifici (sulle ragioni di questa convinzione torneremo), né in ambito teatrologico, dove nei riguardi del teatro inteso come linguaggio circolano vistosi sospetti o tacite resistenze, oggi se ne vede la traccia.
Una moda nasce e si diffonde a partire da alcuni centri propulsori di base, per coinvolgere poi aree tanto ampie della sfera socio-culturale da poterne infine a stento riconoscere l’origine e le radici. Così è avvenuto anche per la semiotica del teatro, che  tra gli anni ’70 e ’80 era sulla bocca di tutti perché era stata sulla penna di alcuni, ma a partire da una ventina d’anni fa ha subito un destino paradossale.
Da un lato il teatro, che dagli anni ’70 veniva approcciato semioticamente, prese ad essere trascurato dall’approccio semiotico. Da un altro, non si è più smesso, in seguito, di riferirsi ad esso, soprattutto in ambito non scientifico-accademico, come a un linguaggio.
Oggi, che l’arte sia un linguaggio, e il teatro con essa, è davvero uno di quei luoghi comuni di un’intellettualità che pur non gravitando nell’accademia ne eredita, più o meno consapevole, il lascito scientifico. Tra teatranti interessati, critici, giornalisti e spettatori appassionati, difficilmente si sentirà negare che il teatro sia un linguaggio, o discutere di cosa questo voglia dire e del perché se ne possa parlare a teatro. Eppure la semiotica e la teatrologia propriamente dette, almeno in Italia, non si occupano più del linguaggio teatrale da un paio di decenni.
La spinta a riprendere un discorso interrotto è venuta innanzi tutto dalla curiosità di scoprire le ragioni di quella interruzione, che per alcuni versi ci è parsa il frutto acerbo di una rimozione. Questa spinta si è coniugata immediatamente con l’idea che far ritornare il rimosso può insegnarci molto, o almeno qualcosa, sulla semiotica e sulla teatrologia da un lato e sul teatro stesso dall’altro.
Non è detto che i termini di questa triangolazione debbano necessariamente ricongiungersi, fuori e dopo l’impulso che questa rubrica si propone di dare. Può darsi infatti che dai discorsi che qui si riprenderanno venga fuori l’inopportunità della riconciliazione dal punto di vista teorico-epistempologico, o più banalmente che – eventualmente se ne verificasse l’opportunità da quel punto di vista – essa venga poi scartata in modo contingente, ad esempio per l’assenza di studiosi che vi si dedichino. Come Barthes insegnava, infatti, un campo di studi non è un ambito astratto, ma è innanzitutto costituito da coloro che lo praticano. E tra i motori dell’interruzione, in effetti, uno dei fondamentali è stato proprio questo, che gli studiosi che avevano fatto la semiotica del teatro hanno poi smesso di farla per ragioni non solo attinenti al progresso della disciplina in se stesso.
Questa constatazione, apparentemente banale, è in realtà interessante visto che ribalta la tendenza alla mitizzazione ipostatizzante che potrebbe indurre (e di fatto induce) a ricercare nella storia di questo fenomeno ragioni solo o soprattutto sovrapersonali. Ma essa non può bastarci. Avvertiamo la necessità di indagare le dinamiche personali (accademiche) e non (teoriche), tra gli studiosi capitali della fu semiotica teatrale, che hanno finito con l’interromperla. E quanto le prime abbiano condizionato le seconde.
L’ambizione globale di questo progetto editoriale è, si capisce, molto alta. Si tratta di guardare al passato di teatro e semiotica per comprenderne meglio il presente, di ripercorrere la loro storia per arricchirne la teoria, di ponderare l’opportunità di ricostituire il legame per andare più a fondo nell’analisi dei fenomeni afferenti al teatro (non solo gli spettacoli, come si dirà), di promuovere nuove indagini incrociate sui concetti fondamentali della teatrologia da un lato e della semiotica dall’altro con il presupposto che uno sguardo dialettico possa straniarli euristicamente…in definitiva di incentivare la ripresa di un discorso che non ci pare ancora abbia detto tutto, anzi.


In teoria, tra pratica e critica
Naturalmente, di fronte a questa serie di obiettivi, si rimane sgomenti se non si approccia il lavoro in gruppo e con una certa sistematicità. Non avendo per vari motivi la possibilità di avviare un discorso di équipe, sistematicità e sinergia del lavoro abbiamo dovuto perseguirle in modo indiretto. Abbiamo quindi tentato di ridare la parola alla gran parte di coloro che l’avevano tenuta nella stagione d’oro della semiotica teatrale, proprio per ricucire i fili di quello strappo e, prima e più che riaprire il discorso in modo radicale proponendo ad esempio una nuova ma singola proposta teorica in forma monografica, quanto meno vagliare collettivamente l’opportunità della ripartenza e semmai inaugurarla morbidamente, a più voci.
Un confronto diretto con quei protagonisti poteva avvenire in vari modi, ma alla fine si è scelta, per ragioni di praticità soprattutto, la metodologia dell’intervista-diaologo. La rubrica ospiterà dunque per lo più interviste, conversazioni tenute con gli studiosi che fecero la semiotica teatrale, ma anche artisti.
Una delle lacune, a mio parere fondamentale, della fu semiotica teatrale era infatti la mancanza di comunicazione diretta tra il mondo accademico e il mondo teatrale. Forse motivata dall’idea dell’autonomia del testo dal suo produttore, la semiotica degli anni ’70 impostò lo studio degli spettacoli in totale autonomia dai teatranti, finendo per escludere dai suoi discorsi le idee e le enunciazioni dei maestri classici e di molti artisti contemporanei, che invece avrebbero potuto arricchirli o addirittura turbarli, rivoltarli.
Non intendiamo qui mettere in discussione l’idea dell’autonomia del testo sostenendo ingenuamente che l’ultima parola sull’opera spetti all’artista. Intendiamo solo riannettere la parola dell’artista sull’opera, ma sul teatro più in generale, come parte fondamentale dell’oggetto di studio.
D’altronde quanto andiamo sostenendo è condiviso da un lato da studiosi come Paolo Fabbri, che invocano da tempo la necessità di appellarsi ai testi e alle dichiarazioni degli artisti non per sancirne la definitività ma appunto per arricchire il corpus d’analisi; e dall’altro da studiosi come De Marinis o Ruffini, che incontrato Eugenio Barba all’inizio degli anni ’80, cominciarono a sostenere l’idea per cui il lavoro produttivo dell’attore e del regista non poteva essere escluso dallo studio del prodotto-spettacolo. (1)
Il problema è che nel momento in cui hanno iniziato a sostenerlo, tra semiotica e teatro ha cominciato a tracciarsi un discrimine. E l’idea di connettere teoria e pratica in maniera diretta e sistematica ha finito per crescere e svilupparsi in altri ambiti della teatrologia (vedi l’Antropologia teatrale), cioè fuori dall’ambito semiotico e senza che questa connessione potesse inserirsi in modo organico e ricco all’interno di questo campo di studi.
Obiettivo ulteriore della rubrica è dunque offrire un’immagine integrata, teorico-pratica, del teatro e della semiotica. Di qui l’appello agli artisti stessi, interlocutori preziosi delle interviste, non solo per la loro competenza larga (e spesso semiotica ante litteram) nel parlare delle loro opere o dei fenomeni costitutivi del teatro contemporaneo, ma anche per la ricchezza terminologica-contenutistica cui lo studioso può attingere per tradurla a suo modo nelle sue analisi e riflessioni.
Inoltre, presenteremo un paio di interventi di critici teatrali. Siamo persuasi infatti che sia dal punto di vista soggettivo sia dal punto di vista oggettivo, il genitivo semiotica del teatro vada ulteriormente scavato appellandosi alla figura del critico.
Dal punto di vista soggettivo, il mondo del teatro ha in questa figura un fulcro fondamentale di produzione di significazione, una produzione che oggi trova sempre più spazio sul web e sempre meno sui giornali dove tende a trasformarsi in cronaca, ma che ciò nonostante conserva i tratti del carisma, dell’autorevolezza e della transitività forte. A questa semiosi espressa soprattutto per iscritto, lo spettatore si riferisce per orientarsi su ciò che vale più o meno la pena di vedere e, una volta visto, per formulare giudizi e interpretazioni. La critica teatrale, da questo punto di vista, è quella porzione del contesto che ha davvero il potere di modellare il gusto, se non addirittura di plasmare la sensibilità rispetto al testo.
Dal punto di vista oggettivo del genitivo, la critica ha un ruolo senz’altro più limitato. Nella storia della semiotica teatrale non si ha in effetti nessuno scambio veramente significativo con la produzione critica, fatto salvo il fatto che alcuni critici teatrali di rilievo negli anni ’70 e ’80 erano anche semiologi: Alberto Abruzzese, Maurizio Grande, Ugo Volli… Ma lo stesso Volli, con la cui intervista apriamo la nostra rubrica, stabilisce significativamente il divario tra le sue attività di critico e di semiologo. Eppure è evidente che se oggi molti critici parlano di teatro in termini di linguaggio, questo divario va per lo meno ripensato. Non è possibile escludere che un tale ripensamento porti la critica a rimodellare il suo metalinguaggio in senso più semiotico e la semiotica a formulare i suoi modelli in funzione del fare critico. Non si tratta qui di un invito alla comunicazione, ma di uno stimolo alla problematizzazione reciproca.

 

La semiotica teatrale ieri e oggi
Per leggere con competenza sufficiente i contributi di questa rubrica, bisogna naturalmente avere un’idea almeno orientativa della storia della semiotica teatrale e della sua inattualità all’interno del panorama degli studi semiotici e teatrologici contemporanei. E’ quanto ci proponiamo di offrire in questo paragrafo, che comunque non potrà configurarsi nemmeno lontanamente come una ricognizione, anche solo sommaria. (2)
La semiotica teatrale vera e propria, quella costituitasi come campo di studi organico e sistematico, nasce solo alla fine degli anni ’60. Prima di allora ci sono stati i contributi della Scuola di Praga, con i vari Bogatyrev, Honzl, Veltruský, Zich, Mukařovsky e Buršak, alla quale comunque risalgono alcuni principi teorico-analitici solitamente indicati come primari nelle pubblicazioni manualistiche: il principio di semiotizzazione, per il quale ciò che si vede in scena assurge immediatamente allo status di segno artificiale, che lo si sia proposto intenzionalmente o meno come tale; il principio di ostentazione segnica, per cui un segno sulla scena mostra anche di essere segno; il principio della mobilità segnica, per cui un segno sulla scena può significare molte cose.
Questo estratto essenziale di semiotica praghese, che è quanto spesso viene attribuito alla Scuola di Praga, è in verità traditore di alcune altre caratteristiche molto preziose di quell’approccio. A Mukařovsky, ad esempio, si devono delle interessanti analisi strutturali sull’attore (3),  mentre a Bogatyrev si può far risalire un interessante attenzione alla teatralità della dimensione rituale e folklorica (4).  E’ probabile che con il senno di poi, alla luce delle acquisizioni più recenti della semiotica e della teatrologia contemporanee, e nell’ottica di un complessivo rilancio della riflessione analitica sul teatro, una rilettura approfondita di questi classici ci condurrebbe anche oltre l'estrapolazione di questi tre principi.
Principi che tra l’altro non vanno nemmeno assunti acriticamente, per quanto li si voglia dipingere come un insegnamento classico: il principio di ostentazione segnica, ad esempio, non è affatto detto che sia un principio individuante l’arte teatrale, potendo essere avvicinato a uno dei tratti distintivi del testo estetico tout court, nel quale Eco ha appunto ravvisato una riflessività semiotica strutturale costitutiva (5).  E i due principi di semiotizzazione e di mobilità segnica non possono essere attribuiti in linea di principio al teatro più che alla fotografia, ad esempio, o al teatro in generale invece che a una specifica serie di pratiche teatrali, pena lo schiacciamento delle varie pratiche l’una sull’altra, esistendo invece molti gradi, a volte anche nulli (come nel teatro amatoriale, o in quello borghese criticato da Brecht, che comunque sono sempre teatro), di artificializzazione e mobilità semiotiche.
Dopo un ventennio di silenzio, la lezione dei praghesi viene ripresa in alcune pubblicazioni all’inizio degli anni ’70, (6) stimolate probabilmente dalla pubblicazione di uno studio di Kowzan del 1968. (7) Da qui deriva un’attenzione generalizzata alla semiotica teatrale, sia all’estero che in Italia. Studiosi come Keir Elam, André Helbo, Tadeusz Kowzan, Jurij Lotman, Abrahm Moles, Anne Ubersfeld (e a modo suo anche Roland Barthes, ci ritorneremo tra poco), da un lato, e come Gianfranco Bettetini, Cesare Brandi, Marco De Marinis, Umberto Eco, Maurizio Grande, Franco Ruffini, Cesare Segre, Alessandro Serpieri e Ugo Volli dall’altro, sono i fondamentali nomi di spicco intorno ai quali comincia a svilupparsi in modo sistematico lo studio del linguaggio teatrale. (8)
Questo entusiasmo si inserisce organicamente innanzi tutto all’interno di un interesse generalizzato al fenomeno del linguaggio tout court e, in secondo luogo, all’interno di una serie coerente di ricerche specifiche volte a indagare i diversi linguaggi e, nel confrontarli reciprocamente, a distinguerli. Così, già dagli anni ’60, l’arte viene a essere concepita come linguaggio strutturalmente inteso – cosa che per la tradizione crociana, tutta concentrata sui fenomeni della creatività e dell’intuizione soggettive, non sarebbe stata assolutamente ammissibile – e viene approcciata tra l’altro con metodologie d’indagine vicine all’analisi cibernetica. L’arte teatrale, in questo contesto, viene paragonata e distinta alle arti pittorica, cinematografica ecc. con grande attenzione alle caratteristiche distintive dell’una e dell’altra e, viceversa, con poca attenzione a quella che sarebbe invece divenuta una idea fondamentale nella semiotica dagli anni ’80 in poi: che ogni testo è sincretico e non se ne rende giustizia se lo si studia come costituito in una specifica semiotica.
Questa stagione della semiotica teatrale è caratterizzata da una dicotomia metodologica fondamentale: quella che vede schierata da un lato gli studiosi “spettacolisti” e dall’altro i “drammaturgisti”. I primi si dedicano allo studio dello spettacolo, convinti che nel copione e/o nel testo drammatico non si esaurisca affatto la teatralità. I secondi sono propensi a credere, invece, in misura più o meno decisa a seconda dei casi, che nel dramma sia già contenuto tutto l’insieme di segni da prendere a oggetto di una semiotica teatrale. Questa alternativa – che può forse leggersi come la facciata superficiale di due concezioni contrapposte del teatro, più novecentesca l’una più classica l’altra, più teatrale in senso stretto l’una più letteraria l’altra, più artaudiana l’una meno l’altra – è tanto radicale che pochi riescono veramente a conciliare armonicamente i due approcci e le metodologie rispettivamente elaborate; lo stesso studio di Keir Elam Semiotica del teatro, pubblicato sul finire della stagione d’oro della semiotica teatrale (1980), che dunque si propone come un libro maturamente sintetico del passato che l’ha reso possibile, si divide letteralmente in due parti, la prima dedicata allo studio della performance e la seconda a quella del dramma, senza che tra di esse si verifichi qualcosa di più che un semplice accostamento.
Tra gli anni ’50 e ’70 tra l’altro, si verificano, contemporaneamente, alcuni fenomeni teatralmente rilevanti. Emergono tra le altre, a livello internazionale, le figure di Samuel Beckett, di Bob Wilson, del Living Theater, di Grotowski, di Tadeusz Kantor e di Eugenio Barba e, a livello nazionale, quelle di Carmelo Bene, di Leo De Berardinis, di Luca Ronconi e di Eduardo De Filippo; inoltre, in Francia e in Italia, nasce la tradizione dei Teatri Stabili, guidati da figure altrettanto significative, come quelle di Jean Vilar, Giorgio Strehler e Luigi Squarzina. Nasce infine la nuova Avanguardia e, negli anni ’70, nelle maggiori città italiane, è tutto un fermento di giovani compagnie  e piccoli teatri anticonvenzionali.
Gli studi accademici sono invitati a rinnovarsi, anche perché sono spesso posti a contatto ravvicinato con le nuove esperienze di sperimentazione. Una figura cruciale in questo quadro, è quella di Roland Barthes. Egli non si schiera tra i semiotici del teatro sopracitati né si configura come fondatore del loro ambito di studi. Non si dichiara mai semiologo del teatro, piuttosto critico teatrale brechtiano. Tuttavia, nella sua lunga pratica di critico teatrale prima, di mitologo poi e infine di semiologo o teorico del testo, la riflessione sul teatro che questa rubrica si propone di rilanciare – sia essa intesa come riflessione sul teatro come linguaggio specifico o, più attualmente, come riflessione su un genere-luogo socialmente inteso come distinto da altri ma dove si incarnano testi sincretici da studiare come tali – può ritrovare molti insegnamenti preziosi che la semiotica del teatro classica, della quale qui stiamo ripercorrendo le grandi linee, non ha sempre riconosciuto.
Gli anni ’80 segnano il degrado della parabola semiotico-teatrale. Nell’82 il libro fondamentale di Marco De Marinis Semiotica del teatro, corona l’entusiasmo del decennio precedente, ma a giudicare dai pochissimi titoli che appariranno in Italia in quello successivo, si configura come una specie di gran finale. Questo libro contiene al suo interno, tra l’altro, i germi di un mutamento di paradigma talmente radicale che la semiotica del teatro dovrebbe dirottare nettamente il suo corso per perseguirlo. Da un lato, come suggerito anche dal sottotitolo del libro, si propone il modello dell’analisi testuale per lo studio dello spettacolo, un modello che da un decennio è in voga negli studi semiotici ed è già stato adottato ad esempio per lo studio del cinema in seguito alle potenti proposte di Christian Metz al quale non a caso lo stesso De Marinis fa ampio riferimento; da un altro lato, però, nella vistosa mole testuale contenuta nelle note a pie’ di pagina, De Marinis rende conto di una realtà teatrale anche contemporanea di crescente complessità, e quando alla fine del suo percorso argomentativo arriva a sostenere la necessità di appellarsi alla dimensione spettatoriale, questa pare quasi, appunto, una resa del modello teorico forte alla complessità descritta al margine. Lo diciamo anche in vista di quelli che sono poi stati gli sviluppi in direzione pragmatico-empirica degli studi dell’autore e in considerazione di una lettura retrospettiva da lui stesso fornita nella fondamentale intervista che proporremo in questa rubrica tra qualche tempo.
E’ infatti un dirottamento, questo verso la dimensione pragmatica ed esperienziale, che lo stesso De Marinis compie gradualmente distaccandosi dall'approccio specificamente semiotico. Nel momento in cui al centro dell’interesse si rivela essere non più il testo spettacolare ma lo spettatore (spettatore effettivo e non modello), (9) la semiotica ha l’obbligo di aprirsi a una sociologia, a una psicologia, a una statistica… che in effetti rischiano di 'sporcarle le mani'. Negli studi degli anni ’80 De Marinis lo propone apertamente, ma distanziandosi appunto dalla vocazione nettamente testuale della comunità semiotica.
Non tutti, in effetti, seguono l’impulso dato da De Marinis, tant’è vero che nello stesso volume del 1985 dedicato alla Semiotica della ricezione teatrale e curato dallo stesso studioso italiano, (10) dentro il nuovo e grande contenitore del titolo, convivono studi e ricerche di ordine ancora testuale, drammatologico e culturologico. Inoltre nel libro che De Marinis fa seguire a questo lavoro, l’importante Capire il teatro del 1988, la semiotica viene a costituire una delle quattro voci costitutive di una teatrologia ormai apertamente interdisciplinare. Lo sforzo teorico è notevole, ma non pare sia poi proseguito negli studi degli anni successivi, piuttosto impostati storiograficamente e antropologicamente. (11)
Nel corso degli anni ’80, dunque, la semiotica teatrale cede sempre più il passo a una teatrologia più larga dal lato delle discipline dello spettacolo, e a una semiotica generale dal lato del campo di studi semiotico. Tra i fattori che hanno determinato questa transizione, tanto complessi da non poter essere esauriti qui, certamente ne possono essere segnalati due di grande importanza.
Intanto, dal lato delle discipline dello spettacolo, si assiste all’ascesa del paradigma antropologico, nelle sue varie declinazioni, l’antropologia teatrale di Eugenio Barba e i performance studies di Richard Schechner e Victor Turner. In particolare, intorno a Barba e alle sessioni dell’International School of Theatre Anthropology, che partono proprio all’inizio degli anni ’80, si ritrovano De Marinis che Ruffini che Volli, anche se quest’ultimo in misura minore. E in quelle occasioni, dove si studia teorico-praticamente l’attore e la sua relazione con lo spettatore dal vivo, i semiologi non fanno valere le proprie metodologie al punto da farne risultare significativa traccia all’interno dei volumi pubblicati a renderne conto. Né è diverso il caso dei loro studi personali successivi, quasi del tutto privi dell’impronta semiotica e sempre più orientati in ottica storiografica e antropologica. (12)
Dall’altro lato, quello del campo semiotico, lo studio dei linguaggi specifici viene a essere rimpiazzato da un approccio generalistico. Dal punto di vista greimasiano, sempre più diffuso nel campo di studi a partire da quel periodo appunto, le semiotiche specifiche iniziano a essere reputate dei falsi oggetti perché, come abbiamo già detto, ogni testo è sincretico e per rendere conto della sua complessità lo si deve assumere in un’ottica di analisi semiotica generale.
Da allora a oggi poco o niente succede in Italia che sia degno di nota. Sempre più distanti appaiono gli ambiti di studio semiotico e dello spettacolo; sempre meno frequenti si fanno i convegni nazionali dell’uno dove siano chiamate in causa voci provenienti dall’altro; più unici che rari, infine, se si eccettuano alcuni contributi pur interessanti tradotti dalla bibliografia internazionale, (13) si fanno le pubblicazioni contenenti qualche accenno di ripresa di quel dibattito.
Stando a questo panorama, l’idea di riprendere la riflessione sul teatro dal punto di vista semiotico implica innanzi tutto il doversi porre il problema se schierarsi dal lato dell’idea greimasiana per cui non c’è ragione di studiare il teatro come linguaggio specifico, e anzi questo è un errore metodologico ed epistemologico, o restare attaccati all’impostazione più classica della specificità semiotica.
La nostra priorità era porre il problema agli studiosi che di volta in volta intervistavamo. Quanto alla nostra posizione al riguardo, invece, crediamo che anche assumendo la prospettiva semiotica generale il teatro è degno di studio non in quanto linguaggio ben distinto dagli altri come per un’essenza, ma in quanto genere culturalmente definito e riconosciuto come diverso dagli altri. Si può cioè evitare, secondo noi, di precludersi lo studio dei testi sincretici afferenti al genere culturale teatro, come oggi fa la semiotica, pur affrontandoli nella prospettiva generalistica. E si può sperare, tra l’altro, di trarre da questo studio tutta una serie di indicazioni rilevanti circa le problematiche oggi più urgenti in semiotica generale, come il corpo, le passioni collettive, l’enunciazione, l’esperienza ecc. che in teatro sono protagonisti assoluti, ma che in modo sorprendente vengono studiati oggi senza riferirsi a quegli ultrasincretismi che sono i fatti teatrali.

Le voci, i temi, le forme
In ordine alfabetico, ecco il ventaglio degli studiosi, dei critici e degli artisti le cui voci prenderanno corpo nei testi della rubrica: Giulio Baffi, Marco Baliani, Gianfranco Bettetini, Marco De Marinis, Fanny & Alexander, Giovanni Guerrieri, Antonio Latella, Marco Palladini, Franco Ruffini, Giancarlo Sepe, Virgilio Sieni, Valentina Valentini, Ugo Volli. Un ventaglio che eventualmente verrà allargato a seconda delle opportunità e degli incontri che ad oggi non sono ancora programmati.
Di seguito, invece, una rapida rassegna dei contenuti intorno ai quali le discussioni si sono strutturate con gli studiosi e con i critici, i canovacci a partire dai quali le improvvisazioni dialogiche si sono dipanate:
-    bilancio della “stagione” semiotica-teatrale alla luce delle più recenti acquisizioni della semiotica generale; limiti principali e prospettive più promettenti;
-    il problema della descrizione e della documentazione (specialmente audiovisiva) del teatro; riflessioni intorno alla delineazione di un metodo per la documentazione audiovisiva, in vista dell’analisi;
-    il problema della mutuazione da altri ambiti di alcune categorie analitiche;
-    il problema del testo. Esiste il testo a teatro? Sulla nozione di testo spettacolare e su quella di testo della performance. Ha senso oggi studiare solo lo spettacolo? Occorre guardare invece al processo produttivo?
-    rapporti della semiotica teatrale con gli altri approcci di studio (sociologia, storia, estetica e antropologia teatrali; altre semiotiche);
-    orizzonti della teoria e dell’analisi: il problema delle passioni, il problema del corpo, il problema delle pratiche semiotiche e del testo, il problema dell’enunciazione a teatro;
-    è utile fornire una definizione di “teatro”? (rapporto eventuale di una semiotica con una fenomenologia storica del genere teatro);
-    “teatralità”: nozione forse utile anche all’analisi degli altri linguaggi, non solo quello teatrale; perché nell’ambito dell’analisi del discorso politico si è diffusa tanto la metafora della spettacolarità? Cosa potrebbe dare a quest’analisi l’approfondimento semiotico-teatrale della nozione di teatralità?
-    la semiotica teatrale di fronte al teatro di oggi: problemi e sfide poste alla teoria dalla pratica.
-    rapporto semiotica teatrale – critica teatrale;
-    rapporto semiotica teatrale – pratica teatrale;
-    teorici del teatro e delle arti ai quali è più opportuno riandare oggi per trarre indicazioni sui percorsi da imboccare nella ricerca.

Agli artisti, per forza di cose, le domande sono state diverse e rivolte senza troppe durezze metalinguistiche, in base a un approccio meno accademico. Siamo infatti convinti che nella pratica artigianale risieda un grande potenziale teorico e che l’artista stesso è spesso in grado di estrapolarlo, ma a patto che lo si ricerchi nel rispetto del senso fondamentale del suo fare, che è appunto un fare eminentemente pratico e solo di conseguenza teorico, e in ogni caso quasi mai accademicamente modellato dal punto di vista metalinguistico. Ecco quindi il ventaglio che risultava da queste considerazioni:
-    in che modo l’artista lavora per comporre i segni dello spettacolo? Quanto sta al caso, al lavoro che nessuno infondo è in grado di dirigere in piena consapevolezza? E quanto sta alla volontà di rispettare un progetto prefissato?
-    sulla variabilità del fenomeno spettacolare. Quanto conta il pubblico, il contesto, per l’esecuzione di volta in volta? (Ha senso studiare lo spettacolo di per sé?);
-    quali sono gli autori classici della storia e della teoria teatrali che hanno costituito un riferimento più importante per l’artista? Quali converrebbe riprendere e approfondire, oggi, per arricchire la riflessione teorica sul teatro e la pratica stessa, alla luce dell’attuale situazione storica, culturale e teatrale?
-    che rapporto c’è fra rappresentazione e narrazione? E fra narrazione e senso?
-    in che modo l’artista, nel suo fare teatro, utilizza o si ispira anche ad alcuni assunti della teoria, dello studio del teatro e della comunicazione;
-    a quale approccio teorico l’artista si è sempre riferito di più? Storico? Antropologico? Sociologico? Semiotico?
-    sul concetto di traduzione-interpretazione. La regia come traduzione-interpretazione di un testo (o di un autore) sulla scena da parte dell’artista-interprete;
-    cos’è l’azione a teatro? in che cosa l’azione si distingue dal movimento?
-    come lavora l’artista sul comico? Che cos’è?
-    come lavora l’artista sul tragico? Che cos’è?

Di volta in volta, a seconda dell’artista interlocutore, la conversazione verteva su aspetti più o meno specifici del suo lavoro, in modo tale da indagare con delle analisi ante litteram alcuni dettagli significativi di uno spettacolo, di un progetto, di una pratica consuetudine. Nel caso di Antonio Latella, ad esempio, l’intervista aveva un respiro più generale e i segni-dettagli su cui veniva richiamata la sua attenzione erano tratti da diversi suoi spettacoli, per poi restringere talvolta la prospettiva su un lavoro in particolare; nel caso di Fanny & Alexander, invece, o di Virgilio Sieni, l’intervista si configurava piuttosto come l’occasione di approfondimento analitico di uno spettacolo specifico, a partire dal quale talvolta allargare lo sguardo al loro fare teatrale generale.

Periodicità
“Culture Teatrali” on line non è periodica, ma la rubrica creerà al suo interno una regolarità di uscite: un contributo ogni mese.

Alcune classiche lacune e proposte di approfondimento
Oltre alle interviste, la rubrica presenterà saltuariamente alcuni testi saggistici, con lo scopo di proporre dei contributi analitici e/o teorici che possano già costituire degli esempi di un rilancio che sia al tempo stesso ripensamento e completamento di una storia lacunosa.
I grandi assenti, nella storia della relazione semiotica-teatro, sono innanzi tutto le analisi di spettacoli o di progetti, di contro alla relativamente prolifica elaborazione di modelli analitici. Forse l’analisi di spettacoli o pratiche teatrali è troppo faticosa, implica l’uso di troppe risorse? Sta di fatto che se ne sono avute molto poche e anche quelle segnalate da alcuni studiosi nelle loro pur preziose ricognizioni bibliografiche (14) riguardano per lo più analisi di testi drammatici, cioè, in definitiva analisi di fenomeni letterari. Col risultato che molti studi non dichiaratamente semiotici e non modellati su quel metalinguaggio, (15) risultano in definitiva più istruttivi per un semiologo che molte analisi semiotiche propriamente dette.
Da questo punto di vista è emblematico il caso del concetto di enunciazione. Un concetto diffuso negli anni ’70 in semiotica soprattutto a partire dalla rilettura di Benveniste, che però lo adoperò solo per lo studio di fenomeni verbali. Il caso è emblematico perché la semiotica ne ha fatto un concetto cardine della sua metodologia analitica relativa non solo e nemmeno prevalentemente a fenomeni di ordine verbale, ma lo ha poi utilizzato in tutti i campi di studio e di applicazione, tranne quello teatrale. Da parte degli studiosi di teatro alcune proposte in questo senso sono venute, ma sempre e solo attenendosi al livello linguistico degli oggetti. (16) Per questo la nostra rubrica proporrà ad esempio uno studio sulla teatralità de Il grande dittatore di Chaplin, per cui decisiva risulterà essere l’indagine sulle modalità enunciazionali del film.
C’è tutto un approfondimento ancora da condurre sugli speach acts a teatro, da intendere non come atti prettamente linguistici, (17) ma come atti semiotici in senso lato. Che questo sia possibile e lecito è ancora tutto da dimostrare, e tanto più lo è per chi ha letto il recente libro di Giovanni Manetti L’enunciazione, (18) che proprio dall’interno del campo di studi semiotico, e in retrospettiva, muove critiche decise all’uso largo che si fa del concetto di enunciazione al di là dell’ambito linguistico. Ma lo sforzo teorico è necessario, visto che la dimensione cruciale dell’efficacia teatrale può essere indagata semioticamente a fondo, secondo noi, anche e soprattutto se la si configura come dimensione perlocutiva di atti aventi valenza illocutiva.
Ulteriore lacuna della storia della relazione teatro-semiotica, è quella che riguarda un approfondimento della dimensione semiotica ante litteram delle formulazioni, più o meno artigianali, più o meno teoricamente elaborate, dei maestri della regia, cioè dei padri della tradizione del Novecento teatrale. In quest’ottica si è ritornati spesso, nelle interviste, sulle teorie ejzenštejniana e brechtiana dell’estati e dello straniamento, ad esempio. Ma è altrettanto opportuno rivolgere un’attenzione saggistica più sistematica alla ricognizione di questa semiotica in nuce nei grandi trattati sul teatro della nostra contemporaneità.
Un primo passo in questa direzione “SignificAzione” lo compirà proponendo uno studio critico piuttosto lungo sul brechtismo di Roland Barthes, figura esemplare perché posta al crocevia tra la tradizione della storia della critica e della semiotica teatrali. A maggior ragione per il fatto che l’attenzione a Barthes come studioso di teatro è stata restituita solo dopo che la relazione tra semiotica e teatro era stata compromessa. (19)
Infine, ma non siamo ancora sicuri che questi ulteriori approfondimenti possano essere condotti da “SignificAzione” al di fuori delle interviste, sarebbe di primaria importanza soffermarsi sistematicamente su due temi, che qui segnaliamo.
Il primo è quello del teatro usato come metafora. Recentemente, nel campo di studi semiotico, questo uso è stato largo e diffuso: per l’ambito politico, soprattutto, o per quello socio-semiotico, la teatralità è stata ampiamente evocata, (20) senza che questa evocazione abbia implicato un vero progresso nella riflessione sul teatro. Può darsi invece che di riflesso, ragionando sui tratti della teatralità su cui i semiologi oggi costruiscono i loro modelli metaforici esplicativi di alcuni fenomeni sociali, si possa anche trarre qualche insegnamento sul teatro.
Il secondo tema da approfondire è secondo noi quello classico dell’empatia. Non esiste alcuna semiotica dell’empatia, come d’altra parte nessuna semiotica dello straniamento. (21) E la lacuna è tanto più urgente da colmare in quanto l’empatia, la vecchia “immedesimazione” di stanislavskijana memoria, appare oggi come il centro d’attrazione di molteplici prospettive di studio, da quella neuroscientifica a quella psicologica, da quella filosofico-analitica a quella fenomenologica, da quella estetica a quella teatrologica… Un tema alla moda, come si dice, portato alla ribalta soprattutto dalla scoperta dei neuroni specchio. (22) Ora, proprio in considerazione di ciò e del fatto che il livello neuronale non è che un livello, peraltro molto limitato, della complessità umana, tanto più urgente si rivela l’intervento di un approccio culturologico al tema eminentemente umano della condivisione del sentire.
Da questo punto di vista, l’indagine semiotica sulle dinamiche culturali e segniche dell’empatia – su come, quando e quanto esse siano debitrici di quelle neuronali, o se non siano addirittura in contrasto con esse, talvolta – può forse proporsi, se non come alternativa agli altri approcci, almeno come complementare ad essi. Il teatro ci si presenta come ambito privilegiato di sperimentazione e riflessione, una specie di laboratorio in cui tutte le dinamiche proprie della relazionalità umana si accelerano e si intensificano. Il teatro acquista perciò uno status di esemplarità nello studio della natura e della cultura umane. Solo questa complementarietà di approcci può a nostro avviso scongiurare il rischio di riduttivismo che in più occasioni si leggerà segnalato anche dagli studiosi che prenderanno voce nelle interviste della nostra rubrica.

 


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(1) Unica fondamentale eccezione, in questo senso, è probabilmente Marco de Marinis, Semiotica del teatro. L'analisi testuale dello spettacolo, Bompiani, Milano 1982, con i suoi exergo grotowskiani e artaudiani.

(2) Mancano ad oggi ricognizioni complete di questa storia. Quelle sommarie più utili sono senza dubbio la “Rassegna critica” contenuta in appendice a Keir Elam, Semiotica del teatro, Il Mulino, Bologna 1988 e il capitolo “Semiotica” contenuto in Marco  De Marinis, Capire il teatro…, cit.

(3) Cfr. Jan Mukařovsky, Il significato dell’estetica, Einaudi, Torino 1973

(4) Cfr. Petr Bogatyrev, Semiotica del teatro popolare, in Jurij Lotman e Boris Uspenskij, Ricerche semiotiche, Einaudi, Torino 1973 (ed. or. 1938)

(5) Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975

(6) Cfr. Franco Ruffini (ed.), Semiotica del teatro. Ricognizione degli studi, in «Biblioteca teatrale», 9, 1974, e Ladislav Matejka e Irwin Tjtunik, Semiotics of art. Prague School contributions, MIT Press, Cambridge 1976

(7) Tadeusz Kowzan, Le signe au Théatre. Introduction à la sémiologie de l’art du spectacle, in «Diogène», 61, 1968

(8) Tra i contributi piu significativi di questo periodo in Italia, cfr. almeno Gianfranco Bettetini, Produzione del senso e messa in scena, Bompiani, Milano 1975; Gianfranco Bettetini e Marco De Marinis, Teatro e comunicazione, Guaraldi, Firenze 1977; Franco Ruffini, Semiotica del testo. L’esempio teatro, Bulzoni, Roma 1978; Giulio Ferroni (ed.), La semiotica e il doppio teatrale, Liguori, Napoli, 1993 (convegno del 1978). Ma rimandiamo alle esaurienti bibliografie contenute nei libri di De Marinis e Elam richiamati di seguito.

(9) La relazione del testo con il lettore convocata in Marco De Marinis, Semiotica del teatro..., cit. è ancora una relazione non effettiva  bensì modello, così come in Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979

(10) Cfr. Marco De Marinis (ed.), Semiotica della ricezione teatrale, «Versus», maggio-agosto 1985

(11) Cfr. ad esempio Marco De Marinis (ed.), Drammaturgia dell’attore, I quaderni del Battello ebbro, o Id., In cerca dell’attore. Un bilancio del Novecento teatrale, Bulzoni, Roma 2000, o Id. Visioni della scena, Laterza, Bari 2004

(12) Oltre agli studi di De Marinis sopra richiamati, cfr. quelli di Franco Ruffini, Teatro e boxe. L’«atleta» del cuore nella scena del Novecento, Il Mulino, Bologna 1994 e I teatri di Artaud. Crudeltà, corpo-mente, Il Mulino, Bologna 1996 e quello di Ugo Volli, La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989

(13) Cfr. Patrice Pavis, L’analisi degli spettacoli. Teatro, mimo, danza, teatro-danza, cinema, Lindau, Torino 2004 e Anne Ubersfeld, Leggere lo spettacolo, Carocci, Roma 2008. Segnaliamo, tra i notevoli titoli internazionali non tradotti in italiano, almeno Erika Fischer Lichte, Ästhetik des Performativen, edition suhrkamp, Frankfurt am Main 2004 e André Helbo, Le théâtre: texte ou spectacle vivant?, Klinksieck, Paris 2007

(14) Cfr. Keir Elam, Semiotica del teatro, cit.

(15) Cfr. ad esempio le monografie dedicate ad alcuni spettacoli di Strehler: Luigi Lunari e R. Orlando, Schweyk nella seconda guerra mondiale di Bertotolt Brecht. Uno spettacolo del Piccolo Teatro di Milano, Cappelli, Bologna 1962 e C. Douel Dell’Agnola, Strehler e Brecht. L’anima buona di Sezuan - 1981 - studio di regia, Bulzoni, Roma 1981

(16) Cfr. ad esempio Anne Ubersfeld, Leggere lo spettacolo, cit. e di nuovo Keir Elam, Semiotica del teatro, cit.

(17) In senso prettamente linguistico cfr. ad esempio Keir Elam, “Much Ado About Speach Acts”: Atti, fatti e effetti nella rappresentazione drammatica, in «Versus», maggio-agosto 1985 

(18) Giovanni Manetti, L’enunciazione. Dalla svolta comunicativa ai nuovi media, Mondadori, Milano 2008

(19) La fondamentale raccolta Roland Barthes, Sul teatro, a cura di Marco Consolini, Bulzoni, Roma, è solo del 2002

(20) Cfr. ad esempio Eric Landowski, La società riflessa. Saggi di sociosemiotica, Meltemi, Roma 1999 (ed. or. 1989) e Gianfranco Marrone, Corpi sociali. Processi comunicativi e semiotica del testo, Einaudi, Torino 2001 (capitolo quinto)

(21) Un primo approccio allo straniamento in prospettiva semiotica l’abbiamo fornito in Luca Di Tommaso, «Ostranenije»/«Verfremdung»: uno studio comparativo, in «Teatro e Storia», 2008, vol. XXIX. A partire da questo saggio, tra non molto pubblicheremo una monografia sullo straniamento in chiava semiotico-estetica a partire da Šklovskij e da Brecht.

(22)  Cfr. Giacomo Rizzolatti e Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano 2006.

 

 


 

Bibliografia

AA. VV., Théatre. Modes d'approche, Klinksieck, Paris 1987 (con contributi di Marvin Carlson, Marco De Marinis, André Helbo, J. Dines Johansen, S. Erik Larsen, Ane Grethe Østergaard, Patrice Pavis, Franco Rufffini, Lars Seeberg, Anne Ubersfeld).
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«Semiotica» Journal of the international Association for semiotic studies, 2008, vol. 168 -1/4 (con contributi su Semiotics of Theatre and Drama di Veronika Ambros, Marvin Carlson, Fernando de Toro, Silvija Jestrovic, Yana Meerzon, Martin Reverman, Eli Rozic, Herta Schmid, Michael J. Sindell, Jane Turner).
Ubersfeld, Anne, Leggere lo spettacolo, Carocci, Roma 2008 (ed. or. fr. 1994).
Volli, Ugo, La quercia del duca. Vagabondaggi teatrali, Feltrinelli, Milano 1989.

Per approfondimenti bibliografici, rimandiamo alle ampie bibliografie contenute nei libri sopra citati di De Marinis, Elam, De Toro.