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“Un comico senza forme”. Intervista a Giovanni Guerrieri su semiotica e teatro
di Luca Di Tommaso


I Sacchi di Sabbia nasce a Pisa nel 1995. Negli anni la Compagnia si è distinta sul piano nazionale, ricevendo importanti riconoscimenti per la particolarità di una ricerca improntata nella reinvenzione di una scena popolare contemporanea. Tra i riconoscimenti conferiti: Premio Eti “Il debutto di Amleto" (2000), Premio speciale Ubu (2008), Premio della critica (2011). L'intervista è stata realizzata nel 2010, in occasione delle repliche alla Sala Assoli di Napoli di SANDOKAN, o la fine dell'avventura e del laboratorio tenuto da Giovannni Guerrieri intitolato Comics per una settimana, nello stesso teatro. Per approfondimenti www.sacchidisabbia.com





LDT: Che cosa significa per te lavorare "semioticamente" a teatro? Cosa significa per te costruire i segni teatrali che poi agiranno sugli spettatori? E’ un lavoro di costruzione a tavolino o un processo di ispirazione? Che cos’è un segno a teatro per te? Qual è la sua valenza nel rapporto con lo spettatore?

GG: Tu sai che io e il mio gruppo lavoriamo su elementi di riconoscibilità. Noi abbiamo un rapporto con la tradizione piuttosto forte; lavoriamo su delle forme note, che instaurano automaticamente un rapporto con lo spettatore. Questo è stato per noi la base da cui sono partiti tutti i nostri lavori. Quindi rispetto ad altri gruppi della nostra generazione, che aveva come riferimento l’arte figurativa – perché quelli della nostra generazione, quella della metà degli anni ’90, aveva come riferimento più forte non il teatro e i modi del teatro, ma l’arte figurativa – noi abbiamo invece come riferimento più forte il teatro. Quindi già questo è importante: noi produciamo dei segni, delle figure, delle forme, che in qualche modo sono automaticamente riconoscibili per lo spettatore, non solo italiano. In qualche modo si instaura un terreno comune dove attori e spettatori agiscono. Questo è successo sin dai primi lavori, anche con un miscuglio tosco-napoletano, perché tra di noi c’è un attore napoletano, o con un richiamo alle figure del nostro cinema, Totò e Peppino, Benigni e Troisi ecc. Cioè siamo la tipica compagnia che genera segni nel momento che è presente in scena. Come attore, ad esempio, io, per la mia fisionomia, produco automaticamente dei segni. Il nostro lavoro è dunque partito dalla consapevolezza di questo fatto. Di qui poi l’elaborazione scenica, di volta in volta sperimentando mezzi per straniare, straniare nel senso di presentare qualcosa che è quello ma che improvvisamente può non esserlo, cercando con questo di generare senso. Ecco, questa è stata la matrice del nostro lavoro.
E come si genera il senso? Ti potrei dire che veramente, a volte, l’abbiamo generato sformando le forme, cioè: calzando troppo una cosa spesso finisci per, come dire, abusarne, sciuparla...

LDT: … renderla irriconoscibile?

GG: ...renderla irriconoscibile, sia nell’eccesso che nel difetto. E questo accade molto nei nostri primi lavori, quelli veramente comici... nell’eccesso, nell’abuso della citazione, nell’esagerazione di certe tipologie, abbiamo cercato un po’ questo materiale indefinibile, un po’ invisibile: una specie di terzo suono che non fosse in scena, ma che galleggiasse nell'aria.
E invece, da un certo punto in poi, specialmente nei primi lavori del 2000, ci siamo invece spostati in modo comune, come sentire condiviso, verso un togliere. Questo ha portato a una sottrazione sempre più puntuale del segno. Come dire, a un certo punto, quello che ci catturava era proprio l’idea di un comico senza forme, di un comico senza caratteri. Proprio partendo anche da una riflessione sulla maschera greca, sulle origini occidentali del teatro, cioè su quelli che sono i segni che noi possiamo trovare nel materiale antico. Più che nei testi (Aristofane) anche nelle tipologie dei cocci, il vasellame, dove si possono trovare tutta una serie di segni preziosi. Questo naturalmente accade nella volgarizzazione, cioè quando se ne parla superficialmente e si pensa ai canovacci, ai brogli. Ma c’è anche altro, cioè appunto questa importante iconografia. Spesso su alcuni vasi c’è una commedia (e lo studio iconografico è un pochino più indietro rispetto alla filologia del testo). E anche a partire da questa idea del comico senza forme e da una riflessione su che cos’è la maschera in generale e poi la maschera antica in particolare.

 


LDT: Tu hai parlato di sformare per eccesso e per difetto e quindi di rendere irriconoscibile il riconoscibile. Ora, perché si abbia riconoscimento bisogna che si sia d’accordo, da entrambe le parti, su certe convenzioni assunte e condivise più o meno tacitamente, affinché il senso si genera all’interno di esse. Ma nel momento in cui questa deformazione ha agito in modo così forte, non siete andati a finire nel "non senso"? In definitiva, che rapporto c’è fra il comico e il senso, fra il comico e il non senso?

GG: Eh… questa è una bella domanda… ci abbiamo pensato spesso. In qualche modo, l’idea di uno schiaffo al senso c’è… noi del gruppo partiamo da un presupposto che condividiamo: siamo in qualche modo legati a vincoli che sono estremamente positivisti, no? Io penso ad esempio alla distinzione tra finzione e realtà, così imperante nella nostra cultura, tanto da creare dei fenomeni, seppure di alto rilievo, ma che a un certo momento rischiano di distruggere l’immaginario della fiction: pensa a cosa succede nella letteratura con l’affaire Saviano. A un certo momento, Saviano crea un precedente incredibile, per cui c’è da chiedersi: cosa fai dopo? E questo ti fa pensare… credo che lo stesso Saviano sia in difficoltà per una sua opera posteriore. E’ questa dicotomia tra ciò che è vero è falso, dove ciò che è vero ha segno più e ciò che è falso ha segno meno, che è imperante. Noi siamo circondati da politici tra virgolette falsi che ci vengono a… Beh, insomma, io riflettevo su come questo non abbia senso per una cultura primitiva, per esempio. Cioè, questo tipo di dicotomia, non poteva esistere nell’Atene di Pericle, dove si può al limite parlare di credibilità e non credibilità. Non è che non esiste il falso, colui che inganna, ma la dimensione del teatro è un’altra forma del reale!

LDT: E viceversa si potrebbe dire che il reale è un'altra forma della finzione…

GG: …esatto.

LDT: Quindi il vostro lavoro a teatro consiste nel problematizzare questo rapporto?

GG: Esatto, problematizzarlo. Come dire, anche cercare di sottrarsi a un certo tipo di dicotomia, che diventa asfissiante, perché poi in qualche maniera si abusa di forme che pongono questo contrasto e poi vai a finire all’ennesimo attacco alla piccola borghesia, che è, come dire, legittimissimo e se vuoi inesauribile. Però mi sembra una partita, non chiusa bensì un po’ asfissiante. Allora, reimpostare queste cose significa lasciare prima di tutto allo spettatore un senso di disorientamento, non dovuto a ciò che uno si aspetta (che da una parte c’è un buono e dall’altra c’è un cattivo, da una parte il bene e dall’altra il male), e in più eludere quello che è il senso comune. Questo però ti porta a qualcosa che è indicibile, che non è forse ricollocabile, che forse non puoi dire in altre parole. Non puoi dire bene come lo fai, puoi magari fare una dichiarazione di intenti, come in Sandokan, che presentiamo come un elogio all’immaginazione. Questo lo scrivi perché vuoi fare un programma di sala, perché vuoi distribuire lo spettacolo, perché vuoi creare i presupposti per dei comunicati stampa etc.

LDT: E che differenza c’è tra l’immaginazione di Salgari (che è anche un po’ stereotipata vista la tradizione che si è sedimentata da Salgari a noi) e l’immaginazione che sollecitate voi nel mischiare il quotidiano con l’esotico, l’ortaggio con l’eroico?

GG: La nostra è quantomeno più critica, parte da un lavoro a monte, a tavolino, come in laboratorio. Noi siamo partiti da una domanda-assioma: che cosa succede a innestare in noi quel tipo di materiale? Siamo buffi? Cosa si diventa, se ci si crede davvero? E allora lì viene fuori un misto, è un po’ come siamo. Siamo un po’ alti, un po’ bassi, a volte siamo animati da questo spirito di eroismo, o comunque da altri propositi, e poi invece vediamo che è una cosa da quattro soldi. E quindi il nostro lavoro diventa qualcosa di più critico rispetto a quello di Salgari, forse più di altri considerato un minore, però ha veramente captato i gusti di una borghesia che sognava, e ha dato un nome e un riferimento a tutti questi sogni, scrivendo una parola, e a questa parola la fantasia del giovane lettore, e non solo del giovane, si spalancava.

LDT: Quindi in cosa consiste, per te, la critica a teatro, il lavoro critico, visto che nello spettacolo Sandokan si tratta di avventure esotiche calate in un quotidiano, in cui si ha a che fare con ortaggi? L’associazione tra questa dimensione e una dimensione critica non è immediata.

GG: No, non è immediata. Per noi critica è tutto quello che viene prima, cioè i presupposti dell’esperimento in laboratorio. Perché qui non è che noi ci siamo messi a dire “ci piace fare Sandokan, facciamolo!”. Poi come viene? Guarda ho provato a costruire il mare della Malesia, ma non mi è venuto…”. Quindi l’idea di partenza era un’idea critica: l’esperimento consisteva nel trapiantare questa cosa in un cucinino, quindi come dire, già questo è un’interpretazione salgariana. Anche se poi molto elementare. È critica anche la scelta dei materiali. Perché Salgari e non Beckett? In un momento in cui molti, soprattutto i giovani, sono in un’epoca post-Beckett, e addirittura  in una maniera performativa, dove il performer entra e esce, quindi grandi manipolazioni dello spazio, e poche manipolazioni del tempo, anche questo è curioso, abbiamo detto “forse Salgari può dire qualcosa di noi”. E quindi questo per noi è critica. Ma è il lavoro a valle, quando si arriva in scena, inizia un lavoro fatto di quello che tu senti, di quello che fai in quel momento, del consiglio dell’amico che viene a vedere una prova...

LDT: Per tornare al lavoro sul comico, ti chiedo quanto il rapporto con il pubblico, i riscontri che di volta in volta, di sera in sera, il pubblico ti dà, quanto questo modifica il lavoro di progettazione, sulla gag, sulla singola trovata comica, e quindi anche su un progetto un po’ più in generale.

GG: Guarda, prima di tutto, l’attore che ha i tempi comici, subisce una dittatura quasi del pubblico, perché si sa che c’è come una forza magnetica che ti spinge alla chiusura della forma, quindi alla chiusura della gag, in quanto forma. Per noi è stato importante... per esempio, abbiamo fatto uno spettacolo nel 2002 che si chiamava Orfeo. Proprio il mito di base era quello. Perché ci siamo arrivati è difficile dirlo, proprio forse per quello, perché c’era una lotta nel pubblico sulle forme, lì si trasformava in una non-chiusura, cioè noi decidemmo deliberatamente... anzi, non deliberatamente. Ci rendemmo conto, dopo lo spettacolo, che noi avevamo costruito tutte gag con l’esca, che a un pelo dalla risata crollavano. E questo creava un blocco fisico nello spettatore. Ricordo che noi avevamo fatto nello stesso anno una serie di cose itineranti per Pisa, un progetto dove portavamo la gente in luoghi un po’ remoti, dove citavamo l’armata Brancaleone. Quindi una cosa molto divertente, molto godereccia. E avevamo, in quel periodo, molta gente al seguito. E successe che quando facemmo, dopo 15 giorni, uno spettacolo, trovammo una spettatrice, una signora di Napoli che aveva portato 15 persone. Cominciò a raccontare di lei, a dire “io faccio questa vita qui… voglio portare altre persone, i miei familiari, per farmi quattro risate… e dico mo’ si ride, mo’ si ride… e non si ride. Mado' n’angoscia…”. Allora la signora aveva totalmente colto il senso del lavoro, le era arrivato fisicamente. Quindi una cosa che ti dà il comico è questa, l'unisono, il rapporto che si ha tra l’uno e la massa, considerando uno, quelli che agiscono nella scena, e la massa, il pubblico. La risata scatta all’unisono, no?

LDT: Ma voi avete in qualche modo uno spettatore modello, che nella vostra immaginazione sta lì durante le prove per modellare le vostre gag, almeno a livello di canovaccio per poi perfezionarle in loco?

GG: Beh, è una bella domanda. Anche su questo abbiamo riflettuto, perché c’è un fatto, che è determinante. Ti faccio questa piccola premessa: noi cerchiamo di costruire per uno spettatore che non sa nulla, che è ignorante, e che quindi l’unica armatura che ha è quella del suo essere umano, della sua antropologia, quello che noi possiamo immaginare sia la sua antropologia, poi chissà, sicuramente c’è un presupposto culturale in questo. Poi succede che i pubblici troppo intelligenti ti sgangherano lo spettacolo che abbiamo costruito prima di questo, 1939 nel 2007, e prima di Sandokan, che era già un percorso intorno all’avventura, e si spostava dal quotidiano all’avventura, perché era una specie di trama su un attentato fascista, un falso storico lo definivamo. Ma era un gioco sulla rappresentazione secondo noi molto intrigante, che spiazzava il pubblico normale, perché era già un inizio della cancellazione della dicotomia vero/falso che avevamo cominciato a fare.

LDT: E quindi il pubblico intelligente?…

GG: ...il pubblico intelligente anticipa, va fuori tempo, ti porta a uno spettacolo più comico di quello che vorrebbe essere, perché era uno spettacolo che consisteva anche nel portare al limite i tempi teatrali.

LDT: Quindi cosa vuol dire per te un pubblico normale?

GG: E' difficile dirlo. Io penso banalmente a mio fratello... ad esempio mi ricordo il mi’ babbo e le risate che si faceva quando c’era Cineco tivù, Ciprì e Maresco, che sono sicuramente dei colti-intellettuali, che però vanno a grattare in quella dimensione antropologica, quella comicità dove può essere sublime anche la scorreggia, e mi piacerebbe andare a cercare oltre il riferimento culturale, dove riconosci la dimensione pasoliniana, o riconosci Caremelo Bene, riconosci quelli che son diventati topos della sinistra. Perché spesso oggi è così. Oggi uno spettacolo colto è quello che cita, che fa sentire te e il pubblico intelligente.

LDT: E quindi su questa strada verso lo scheletro del comico, che gratta a livelli primitivi, immediati del rapporto antropologico, quali sono gli elementi che secondo te sono più caratterizzanti, per una gag ad esempio? Il fattore contrasto, l’elemento ritmico...

GG: L’elemento ritmico è fondamentale, per noi il lavoro sul tempo è qualcosa che vedo raramente nei giovani. Il teatro ha il suo tempo, fatto di improvvisazioni, di pause, di sospensioni, di tic. E secondo me è da questa sospensione del tempo, da quest’accelerazione, o interruzione di forme, che dovrebbero germogliare le forme, che in qualche maniera ti scatenano. Penso al lavoro che stiamo facendo su Mozart*:  il lavoro consisterà nell’ascolto e nella riproduzione vocale della musica dell’Opera, da parte degli attori. Non sapendo leggere la musica, il nostro sforzo è stato quello di ascoltare le trame dell’opera per riprodurle tutte quanto più fedelmente possibile con la sola voce e, al limite, con l’ausilio di qualche percussione operata sul corpo dalle mani. Gli attori schierati in scena modificano posture mimiche soltanto nella misura in cui queste modifiche servono a migliorare la riproduzione vocale. Il testo dell’opera, tradizionalmente assegnato alla voce, viene ora invece trasferito in sovratitoli che scorrono durante lo svolgersi della musica vocalizzata. In questo lavoro uno degli sforzi è quello di non creare gag al di là della battuta, battuta nel senso musicale. Allora vedi come la gente già ride, se te gliela isoli; in qualche maniera interpreti, diventi il mezzo con cui  questa roba arriva allo spettatore, già ridi di Mozart, di più di quanto fai nell’Opera. Perche nell’Opera c’è sempre di mezzo l’Io, un po’ troppo spesso, un po’ troppo grosso, del cantante. Per darti un’idea, Donna Elvira lo attacca: “Don Giovanni, sei qui, mostro fellon’..didnindind…che titoli cruscanti!...manco mal perché lo conosce ben’... ”. Quindi dall’alto al basso: se la fai col “po-po-po-poo”, la gente ride perché è una caduta imbarazzante, c’è qualcosa come l’attrazione della caduta sulla buccia di banana.

LDT: E secondo te il pubblico riderebbe lo stesso se ci fosse un innalzamento improvviso dal basso all’alto?

GG: Secondo me è più difficile, perché l’alto ha un valore positivo, il suono acuto, la disperazione, oppure l’impostazione, cioè... il basso baritono è quello che fa il comico, perché arriva a quel po-po-po-po. Poi invece le tonalità tragiche stanno nell’alto e quindi pensa nel Don Giovanni, che è l’opera che conosco bene, ma anche in generale, al Tenore e al Soprano, e al Basso grave, profondo, nella voce del Commendatore, cioè l’oltretomba, l’oltremondano. E' in questi estremi che sono delegate le note tragiche, il basso baritono è il basso comico, in qualche maniera.

LDT: Nella caduta c’è un ritorno improvviso a una dimensione che ha a che fare con il ridicolo, con il profondamente fragile. Quindi è un po’ una liberazione di questa dimensione la risata?

GG: Secondo me sì, purtroppo io non riesco a dire di più, lì arrivo a una zona nebulosa, perché io normalmente non riesco a dare un senso interno, un motivo... però mi diverte, mi appassiona l’esplorazione delle forme.

LDT: Infatti, a proposito di questa esplorazione, nel laboratorio che abbiamo appena concluso, hai detto che in questa vostra ricerca di vari anni avete stiracchiato il comico un po’ in tutte le direzioni. Quali sono state queste direzioni?

GG: Allora, una delle più estreme può essere quella di Orfeo, quella di non ricrearsi, di non creare forme chiuse, al limite della non risata. Però utilizzando un meccanismo comico, portarlo lì, e non concluderlo. Cioè andare via, al momento in cui si dovrebbe. E la cosa bella è che ci siamo arrivati in maniera non raziocinante, a piccoli passi. Era uno spettacolo che partiva da parole che avevo scritto io e a un certo punto, l’unica parola che dicevo era “banale”. Io non avevo fatto né clownerie, né mimo, per cui era tutto legato senza suono, senza nulla. Era come un funerale, con note dolenti, e lì ci abbiamo pensato dopo, era la nostra citazione dialettale, i due dolenti, la morta in scena viva, e io che facevo Orfeo che non mi rassegnavo. Questo era il gioco, e a un certo punto iniziava quest’associazione che c’era tra un ventilatore che emetteva aria, e lei che non riusciva a spegnere una candela. E questa cosa senza senso cominciava a far venire i lacrimoni a qualcuno. La nostra dimensione attoriale era dura, perché in qualche modo lottavi contro il pubblico, sentivi che se tu facevi qualche cosa, se rovesciavi tutto, diventava una grande risata liberatoria. E arrivare lì a un passo e non farla, ti portava a questa frustrazione. E quindi questo è stato proprio un esempio forte. Altri esempi sono stati Tragos, che era uno spettacolo che si articolava in due tempi; l'uno era post-beckettiano: c’era un salottino, piccoli rumori, personaggi che parlavano tutti insieme, dove si rideva molto; di contro, arrivava un secondo atto che durava circa 20 minuti, fatto di una serie di esperienze, composto anche di danza, e di una comica-espressionista. Quindi citando un po’ quello che stavamo facendo nel primo atto, c’erano due personaggi immobili nel salotto, vestiti in frac (io e Giulia), io in frac, lei in vestito bianco, che guardavano senza audio Ginger e Fred, che ballavano Cheek to cheek, sai la pesantezza e la leggerezza, e noi mangiavamo delle patatine. Poi arrivavano Enzo e Gabriele, e questo mi era piaciuto, ma l’ho scoperto dopo. Gabriele faceva una specie di Padre Pio in salotto ed Enzo... non si capiva che tipo di relazione c’era tra i due, poteva essere il fratello ritardato... non veniva data una definizione... Enzo faceva quello che chiedeva in numeri, e c’era ‘sto santo che non gli permetteva di farsi male, lo accudiva, e fra le due coppie cominciarono delle interazioni, in tutto il primo atto, che duravano una quarantina di minuti e venivano fuori delle risate enormi.

LDT: Quindi la vostra ricerca, mi viene da pensare attraverso i tuoi racconti, è una ricerca sul comico, ai limiti del comico, fino ad arrivare alla sua negazione. Allora colgo l’occasione per farti una domanda, visto che hai citato lo straniamento e visto che hai insistito molto su questo concetto durante il laboratorio. Il lavoro che abbiamo fatto insieme consisteva in lavori sulla frattura, sulla dissociazione, allora cito Brecht che stabiliva un legame molto forte tra il comico e lo straniamento, però si poneva dei problemi e non li risolveva fino in fondo, né in teoria, né in pratica, sul legame che c’era tra lo straniamento e il tragico, o lo straniamento ed altre modalità di gestione della distanza. Ti chiedo com’è possibile giocare, giostrarsi con la distanza? Soltanto in maniera ironica oppure ci sono delle formule malinconiche, tragiche?

GG: Io penso che si possa giocare in maniera diversa, e ti ripeto che le nostre forme, tra cui questa qua di Sandokan, e anche la musica, hanno a che fare con la manipolazione. A volte ci sono dei corto circuiti, dove il segno... citando anche i libri d’avventura, dopo venti pagine c’era un segno che improvvisamente ti colpisce, in quel momento improvvisamente vedi un Sandokan, poi ritorni quotidiano, ritorni sporco. Noi abbiamo sempre manipolato le forme. Me ne rendo conto perché noi siamo una tipologia d’attore in cui la distanza è tutto, è una condizione attoriale. E nel caso che ti dicevo di Orfeo, la domanda era “poteva essere tragico quello?”; si può, attraverso questa eliminazione delle forme, o come dire, questo rosicamento dei confini, dei limiti, arrivare a qualcosa che non ha forma? Questa cosa, sul rispetto di ciò che non ha forma, è la dialettica tra quello che è visibile e quello che non è visibile, a come si aprono le maglie per far passare altro.

LDT: Questo altro può essere fonte di ilarità, come di angoscia...

 

 

GG: Sì, anche di angoscia. Come si fa a dire a parole il dolore di una perdita? Allora, in qualche maniera, si lavora un po’ al negativo, e ti rendi conto che se infittisci gli spiragli, le cose divengono più ilari, più squillanti, anche la nostra opacità si ravviva. Se sei più malinconico e lasci un po’ le maglie larghe e sbrindellate ai lati, viene tutta un’altra malinconia e hai una tinta più opaca.

LDT: Quindi il comico, da questo punto di vista, avrebbe a che fare con questa definitezza dei contorni, non so… Io ti provoco sempre sulle definizioni.

GG: Io penso all’origine del teatro: da una parte hai gli ambasciatori, le figure, le parodie del mondo reale, i doppi parodici. Dall’altra hai Ditheopolis, che non appartiene al mondo, la cui maschera va in una dimensione silvana, agreste, una cultura che sta cominciando a sparire, più ombrosa. Ora senza tirare facili conclusioni, perché per carità, sono studi inesauribili, però di fatto, tra un doppio parodico e una maschera in qualche maniera più inquietante, ossimorica, che non dice una cosa sola (pensa anche ai Pulcinella, agli Arlecchino) c’è una differenza. Tra l’esagerazione grottesca, un rovescio carnevalesco della figura che entra nel mondo, e quella che viene da altrove, c’è una differenza.

LDT: D’altra parte la morte, nelle tragedie greche, avveniva sempre al di fuori, era l’irrappresentabile. Però anche le maschere comiche hanno a che fare con gli inferi, con la morte. Da questo punto di vista, il comico e il tragico arrivano quasi a toccarsi, al di là della rappresentazione in qualche modo.

GG: Infatti e questo diventa tutto un terreno molto interessante. E lì diviene anche interessante parlare di straniamento, di come la cultura tende ad inglobare queste figure e a farle entrare in una dimensione più comprensibile, riconoscibile, manovrabile. E' allora che l’intervento di un autore compie uno straniamento.

LDT: C’è questa sclerotizzazione graduale progressiva delle forme che a loro volta erano state...

GG: ...come dire l’Arlecchino dai colori della primavera al Re dell’ Inferno, dalle nozze infernali di Arlecchino al servo della Commedia dell’Arte, e poi Goldoni, etc... c’è un imborghesimento, e anche le operazioni che sono state fatte sopra, per renderli, ri-innestarli dentro, sono il risultato di una trasformazione, un farli diventare altre cose. Un segno si può anche consumare. Io oggi non andrei a vedere mai un Arlecchino. Però, come dire,  Leo ha fatto Pulcinella, Manchisi faceva Pulcinella, ancora c’è questo.

LDT: Sul finire di quest’intervista, ti chiederei cosa vuol dire per te impegno a teatro, anche per riprendere un po’ alcuni fili che abbiamo dipanato all’inizio del discorso e che bisognerebbe ordinare un po’. Prendiamo ad esempio il vostro spettacolo Sandokan, che non sembra molto impegnato, vista l’origine e visto il modo in cui l’avete messo in scena. Al di là dell'apparenza, mi pare invece che tutto il tuo dicorso sul forzare i limiti delle forme retoriche abbia a che fare con un profondo senso civile, che non è forse l’impegno della trasmissione, del messaggio rivoluzionario, ma è qualcosa di più, che ha a che fare con una forzatura anche dei limiti di quell’eventuale messaggio rivoluzionario. Che mi dici da questo punto di vista?

GG: Ti dico che per me, per noi, al di là della fatica di lavori di questo genere, non credo che lo si possa fare mettendoti a provare soltanto 25 giorni. Deve essere frutto anche delle modalità produttive che ti dà il senso di ricerca, e la stessa ricerca di un lavoro che lascia libere le teste in qualche maniera, liberi di emozionarsi, di non abbandonarsi a una mondanità. Io vado a teatro perché riconosco che mi sento una comunità di eletti, è quest,o è quello che pensa il pubblico. Io sono fedele alle parole di Strehler, degli anni ’70: “fai uscire le persone di casa, fa’ loro abbandonare il televisore. Ci vuole qualcosa di importante, perchè lo debbano fare”. E' lo studio sul linguaggio, l’impegno, il domandarsi “come comunico?”. In un mondo dove la comunicazione è importante, sforzarsi di non-comunicare, ora facendo un paradosso, o forzando la comunicazione ai suoi limiti, è una cosa che non è stata programmata abbastanza dai comici, che tendono invece a farsi una morale. Cioè Beppe Grillo che diventa politico, la Guzzanti fa il film e poi aspira a una specie di dimensione di leader di colui che ha qualcosa da dire.

LDT: Quindi il teatro in questo senso, ha un lavoro un po’ diverso rispetto a quello delle altre arti, ad esempio il cinema, che si spinge sempre verso la ricerca di cose nuove, come il 3D, la ricerca tecnologica. Il teatro che ruolo ha in questo contesto?


GG: Sì, per esperienza personale, se tu intuisci che le figure sono lì e in quel momento si sdoppiano in tanti possibili sensi, e ti provoca un senso di vertigine, quello sì, è un qualcosa che ti regala emozioni forti.  Che nella vita se le fai, rischi, "abbuschi", come si dice? Il teatro in questo senso, è un luogo unico, io gli attribuisco un qualcosa di grande. Ci sono comunità che ti devono capire, una mondanità come quella degli abbonati, che va verso l’invecchiamento, rischia di non essere sostituita. Oggi ci sono realtà più giovani che esplorano cose come il fumetto, giovani pionieri che trovano cose più ampie. A volte ho un po’ paura che sia una questione culturale. Non la puoi fermare la riproduzione tecnica, il video. Ma questa cosa è una cosa forte.

LDT: Concludo con una battuta. Il teatro è l’arte del cogliere, e forse anche per questo avete fatto uno spettacolo con gli ortaggi, la poetica del cogliere.

GG: Il teatro è quella cosa che apre anche agli scontri culturali, misura la tua dimensione, ti fa riflettere. Ci sono state delle cose in passato che mi hanno fatto meditare. Una è quando il mio professore all’università ci parlò di una tournée di un indiano la cui tribù di pellerossa, negli anno '80, faceva teatro in America e svolse una grande tournée europea. Mettiamo che siano venuti a Roma. Il pellerossa chiese delle piume d’aquila e arrivato a Roma gliele fanno trovare, ma questi sostiene che non lo erano, reclamando allo scenografo, alle guardie... Sembrava uno scontro tra Totò e Peppino. La nostra ricerca è che gli oggetti ti fanno domandare cosa ci puoi fare. Sandokan è l’archetipo, l’avventura, c’è una base ancestrale e l’avventura con l’indiano mi ha fatto capire molte cose.  Il teatro è una cosa che non finisce mai.

 

* All'epoca dell'intervista lo spettacolo Don Giovanni da W. A. Mozart (2010) era in preparazione.