Significazione.03 Stampa

///Una rubrica per ripensare la relazione tra semiotica e teatro oggi///
a cura di Luca Di Tommaso


L’estraniamento tra dialettica e differenza.
Uno studio sul brechtismo di Roland Barthes.

di Luca Di Tommaso [PDF]


Non so che cosa ne sia stato del Berliner Ensemble dopo la morte di Brecht, ma so che il Berliner del 1954 mi ha insegnato molte cose – e ben al di là del teatro.
Roland Barthes (1)



Questo studio si pone l’obiettivo di esplicitare il ruolo del concetto brechtiano di estraniamento all’interno dell’opera di Roland Barthes. Necessariamente il nostro discorso toccherà le categorie fondamentali di quest’opera, quali la scrittura, il mito, il testo e, soprattutto, la dialettica e la differenza. Le leggeremo, tuttavia, da un prospettiva parziale, tanto importante quanto, in gran parte, inedita.
Se infatti il rapporto di Barthes con il teatro è stato sondato in profondità in tempi recenti grazie all’apparizione di un’importante raccolta di scritti sul teatro (2) e a una serie di interventi critici, (3) scarsa attenzione è stata riservata al rapporto con il concetto brechtiano di estraniamento, che a nostro avviso costituisce invece un privilegiato punto di osservazione non solo dell’opera di Barthes circoscritta al periodo 1953-1960 – quello in cui egli frequentava assiduamente il teatro e scriveva critiche teatrali di impostazione nettamente brechtiana –, e nemmeno soltanto di tutta l’opera di Barthes, ma addirittura di tutto il contesto storico-teorico-culturale della Francia tra gli anni ’50 e ’70.
L’oggetto di questo studio è per noi tanto più significativo in quanto va a ripescare dal passato un concetto che molto spesso viene ritenuto – a torto – far inscindibilmente parte di un’ideologia, quella socialista, ormai inattuale. Ma se l’ideologia è inattuale, ciò non è un buon motivo per ritenere inattuale tutto Brecht, o tutto Benjamin o tutto Sartre ecc. Alcuni concetti o modelli metodologici ed epistemologici possono essere estrapolati dalla loro vicenda politica e biografica, sulla quale essi troppo spesso (salvo alcuni recenti e importanti casi critici) (4) vengono appiattiti. Lo straniamento, come l’immagine dialettica benjaminiana, è uno di questi, perché straniare voleva dire per Brecht produrre critica, non produrre critica in vista della rivoluzione socialista; semmai si poteva, con lo straniamento, produrre critica del socialismo, il che sarebbe stato sempre meglio che indurre, mediante strategie acritiche, un’incondizionata adesione a quella ideologia. (5)
Rileggere lo straniamento brechtiano attraverso Barthes significa quindi anche e soprattutto muovere un primo passo verso questa estrapolazione.

1.  Periodizzare Barthes dal punto di vista di Brecht

Occorre procedere per gradi. Innanzi tutto chiarendo la nostra posizione riguardo all’annosa questione sulla continuità o la discontinuità del pensiero di Barthes attraverso le sue fasi, e chiarendo contestualmente in che modo, secondo noi, può essere periodizzato in funzione di una maggiore euristicità circa il nostro tema.
Circa la prima questione, che trattiamo unicamente in funzione del legame Barthes-teatro-Brecht, ci pare chiaro che nella produzione barthesiana non possa ravvisarsi una continuità assoluta di pensiero e scrittura, e che tuttavia non si tratti di un’eterogeneità priva di una sistematicità fondamentale. Una sistematicità dinamica, se si vuole, ma contraddistinta dall’inizio alla fine dalla medesima ossessione per la stereotipia, per la solidificazione del senso e per la cattiva coscienza borghese (cfr. Marrone 1987 e 1994).
Una sistematicità dinamica e periodizzabile, nella nostra ottica, in modo analogo a quanto Barthes stesso fece in un paio di occasioni (6) :
1) il periodo mitologico e teatrale (1953-1958/60);
2) il periodo semiologico (1958/60-1966);
3) il periodo del Testo (dal 1966 al 1980).

Offriremo qui di seguito una panoramica rapida sui punti cardine di ciascun periodo per poi proseguire il nostro studio con un’analisi diacronica più specifica, circa lo straniamento in questo percorso.
Il “periodo mitologico e teatrale”, dunque, è quello compreso tra il ’53 e il ’60; qui egli «individua i suoi scrittori prediletti, pubblica i primi articoli e i primi libri, inizia a delineare quelli che diverranno i concetti portanti della sua opera». (7) Nel 1953 Barthes pubblica Il grado zero della scrittura, in cui propone l’utopia di una scrittura bianca, priva cioè di quelle connotazioni ideologiche che la scrittura per la maggior parte veicola. Quest’opera, che pone le basi teoriche per l’attività anche critico-teatrale di Barthes (8) è nettamente influenzata dall’attitudine engagé propria del Sartre di Che cos’è la letteratura? e prepara il terreno per l’engagement teatrale praticato da Barthes durante gli anni della rivista «Théatre Populaire».
Questa rivista, che ha vita dal 1953 al 1964, e che costituisce un riferimento essenziale per comprendere la storia del teatro francese ma anche la storia del marxismo francese del secondo ‘900, viene di fatto diretta soprattutto da due personalità di spicco, Roland Barthes, appunto, e Bernard Dort. (9) La linea della rivista è in generale e in negativo quella della lotta all’ideologia borghese, declinata poi in particolare e in positivo nel riferimento di volta in volta diverso ad un modello teatrale specifico, quello di Jean Vilar prima, quello di Bertolt Brecht dopo e, infine, quello del Piccolo Teatro di Milano.

La parabola di Barthes al suo interno inizia con il nascere della rivista stessa, ma si esaurisce prima della sua fine, nel 1960, perché sul finire degli anni ’60 Barthes si allontana non tanto da quell’atteggiamento, quanto dal teatro e dalla critica teatrale in generale. E’ stato detto molto su questa ‘uscita di scena’, motivata forse da un’insoddisfazione rispetto alla situazione teatrale del tempo (Brecht muore nel 1958 e a parte le sporadiche apparizioni del Berliner Ensemble a Parigi e, dopo qualche anno, l’arrivo di Strehler, Barthes vede intorno a sé soltanto un’avanguardia sterile), o da altre ragioni personali che qui ci interessano poco. Ciò nonostante, il teatro rimarrà sempre per Barthes un bacino a cui attingere con la sua scrittura e, come vorremmo dimostrare, lo stesso si può dire di Brecht e del suo concetto di straniamento.
Tornando al periodo teatrale, è questo anche soprattutto il periodo (1954-1956) in cui Barthes pubblica le mitologie del mese, raccolte poi nel volume divenuto ormai classico Miti d’oggi, il quale non a caso si chiude con il saggio “Il mito, oggi” che fa del brechtismo la sua bandiera. Nonostante il fatto che nelle sue auto-periodizzazioni Barthes faccia terminare il periodo mitologico nel 1958, si può dire che il periodo teatrale coincida sostanzialmente con quello, dal momento che già dal 1958 Barthes va molto meno a teatro e partecipa sempre meno vivamente alle riunioni della rivista, così che i due saggi pur molto importanti “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” e “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, rispettivamente del '59 e del '60, possono effettivamente rientrare nello stesso spirito di critica sociale mitologica propria delle precedenti mitologie e critiche teatrali.
Il “periodo semiologico” (1958/60-1966) (10) è contraddistinto dalla mancata frequentazione con il teatro e tuttavia dal persistere di Brecht e del suo insegnamento all’interno dell’atteggiamento barthesiano fondamentale; che se ora non è più mitologico non lo è tanto per il venir meno dell’impegno, quanto per il venir meno del metodo mitologico in cui canalizzarlo e per l’insorgenza di una nuova ricerca, quella semiologica appunto, che non è sterile e astratta ricerca sul modo di funzionamento dei sistemi semiologici sociali, ma appunto rinnovata forma di engagement. Se si accetta, come facciamo, la relazione tra la critica alla stereotipia e la valorizzazione del discorso brechtiano, si deve ammettere che anche la ricerca semiologica è una forma di brechtismo. E d’altra parte vedremo che la riflessione sulle ragioni teoriche e/o sociologiche poste alla base di questo cambiamento se non altro metodologico, costituisce un momento fondamentale per comprendere quel contesto storico-sociologico-teorico di cui già sopra.
Meno evidente è, nel terzo periodo, la relazione della scrittura barthesiana con Brecht, dal momento che innanzi tutto meno evidente è la relazione Brecht – Testo. Il “periodo del Testo” (dal 1966 in poi) è quello meno apparentemente brechtiano, perciò è proprio da questo lato che dovremo soffermarci di più. In riferimento a questo periodo, la relazione Teatro (e teatralità) – Testo è stata ben approfondita; dovremo quindi piuttosto mostrare in che modo il primo rapporto si incrocia con il secondo, dal momento che la stessa relazione tra i due rapporti ((Brecht – Testo) – (teatralità – Testo)) risulta meno immediata che nel primo periodo, laddove essa era semplificata dall’equazione Brecht=Teatro(-teatralità).   
In questo quadro generale si inserisce l’uso del termine e del concetto “distantiation” (“estraniamento”), che si rivelerà una spia dell’evoluzione della scrittura-pensiero di Barthes. In esso vedremo raccogliersi emblematicamente gli sviluppi dell’opera complessiva, ma vi riconosceremo anche un punto di retroazione sull’opera stessa perché Barthes non ne fece uso come si usa un martello, ma lo modificò a sua volta nel tempo, ne fece una pratica di scrittura e di elaborazione critica, tanto assidua da venire infine rivalorizzata e risemantizzata in relazione ai testi, ai periodi, ai contesti e agli orientamenti. Ma veniamo nello specifico a questo approfondimento diacronico.

 

2. Brecht per Barthes nel periodo teatrale e mitologico: 1953-1958/60.

Nel primo periodo, come detto, la relazione di Barthes con il teatro e con Brecht fu assidua, appassionata e convinta. Barthes fu il principale animatore del brechtismo in Francia in un momento in cui questo paese subiva la forte influenza, a livello culturale, del modello comunista. Tuttavia, brechtismo non vuol dire esattamente marxismo, anzi per certi versi, il primo era per Barthes una sorta di via di fuga da certe storture del secondo.
Morin, ad esempio, ha scritto che Barthes vedeva in Brecht, così come avrebbe visto nello strutturalismo e in altri fenomeni culturali più tardi, la postulazione della necessità di una distanza che anche lui, evidentemente, doveva aver avvertito e postulato sulla loro scia. (11) E Roger, in uno degli studi più approfonditi tra quelli (pochi) dedicati al marxismo di Barthes, ha sostenuto che negli “anni-Marx” (coincidenti per l’autore con il nostro “periodo teatrale”) Barthes fece tre usi fondamentali di Brecht. (12)
Il primo fu un «uso interno», quello con il quale egli riaffermava il suo ideale teatrale già elaborato negli anni ’40, prima ancora di aver assistito agli spettacoli brechtiani: l’ideale di un teatro popolare, accessibile a vasti strati della popolazione e capace di agire effettivamente su di essi nel senso di una trasformazione socio-politica. (13) Il secondo uso sarebbe, per Roger, polemico: Brecht sarebbe difeso per attaccare la falsa tragedia dei boulevards e la tradizione teatrale e culturale borghese. Il terzo uso sarebbe invece «l’uso anti-marxista» di Brecht, vale a dire la rivendicazione, con Brecht, di un concetto di storia e di teatro storico fondamentalmente diverso da quelli marxiani. Roger si appella all’articolo di Barthes “Brecht, Marx et l’Histoire” (1957), effettivamente capitale in questo senso:

E’ certo che il teatro di Brecht, che deve tanto al marxismo (è giusto dire, anche, che il marxismo deve molto a Brecht) non realizza esplicitamente la concezione marxiana del teatro storico. Certamente, in Brecht, le masse sociali hanno sempre una precisa collocazione […]. Ma il teatro di Brecht non si presenta mai come la spiegazione apertamente storica nei dei conflitti di classe […] la Storia è dovunque in Brecht, ma come una base, non come un soggetto. (14)


D’altra parte, anche se Roger non lo sottolinea, non sono soltanto Marx e Engels scrittori di lettere sull’arte a Lassalle l’obiettivo polemico di quest’uso di Barthes. L’altro obiettivo è l’estetica stalinista: non sono pochi i testi soprattutto di questi «anni-Marx» in cui i nomi di Ždanov e Lukàcs sono presi di mira per affermare la maggiore sottigliezza dell’arte brechtiana. (15) In definitiva, dunque, Brecht serve a Barthes per crearsi e propugnare un suo marxismo, cioè un brechtismo anti-borghese e popolare, fatto di sperimentazione teatrale e culturale, in funzione critica verso lo stato di cose esistente, in vista dell’illuminazione della pretesa “Natura” in base al richiamo costante, anche se implicito, alla Storia.
Veniamo dunque al senso cruciale della distantiation. Innanzitutto, diamo uno sguardo alle occorrenze del termine nei testi di questo periodo che, paradossalmente, non sono molte. Esso viene utilizzato per la prima volta nel saggio “Teatro capitale” del 1954, dove se ne fornisce anche una prima definizione:

Brecht strania la fatalità della guerra, la circoscrive in Madre Coraggio, vivandiera nella guerra dei trent’anni, come si circoscrive un ascesso, e attraverso questa operazione sperimentale noi ci liberiamo di ciò che pensiamo essere una condizione vischiosa, fatale, patetica: la distanza dello sguardo ci predispone alla libertà del giudizio e al potere dell’azione. (16)

Lo straniamento viene descritto come una tecnica sperimentale (primo elemento antistaliniano) che ha conseguenze non patetiche né vischiose (cioè non coinvolgenti lo spettatore al punto di costringerlo ad aderire ai sentimenti mostrati in scena), né tantomeno fatali. Un altro luogo in cui il termine compare è il saggio del ’55 “Macbeth”, (17)  in cui si discute l’altro fondamentale concetto brechtiano, il Gestus, cioè l’atteggiamento assunto nei confronti della vicenda e del pubblico da parte dell’autore, dalla sua opera o anche dalle singole componenti (musica, scene, attori ecc.) della stessa. Ancora, il saggio del ’56 “I compiti della critica brechtiana” (18) parla dello straniamento e della altre tecniche del teatro brechtiano come di qualcosa che pone «un problema nettamente semiologico». Infine, Barthes usa la parola in due saggi del 1959 e del 1960, (19) ma lo fa in un modo che dovremo analizzare in dettaglio tra poco.
Per il momento, limitiamoci a rilevare che nella definizione tratta dal primo testo è già presente il succo non solo della teoria brechtiana, ma anche di quella barthesiana di questo primo periodo e, soprattutto, di quella successiva. Infatti, si delineano subito all’orizzonte i due nemici fondamentali: il pathos eccessivo e il Fato. Ora, quello su cui Brecht in effetti insisteva era proprio l’urgenza di privare i fenomeni sociali della loro apparenza naturale, come se fossero stati decisi da un Dio o da un Fato, appunto, in maniera da essere per gli uomini incontrovertibili. (20)
Allo stesso modo Barthes, che si fa interprete di questa insofferenza alla Natura, a Dio e al Fato, lega la critica del Pathos a quella della Natura, poiché è nel pathos onnicomprensivo dell’attore posseduto che lo spettatore viene inglobato e quindi privato della sua libertà di scelta rispetto alle proprie azioni, come fosse di fronte a un fenomeno che va da sé, ovvio, naturale, su cui non si può far niente. Lo straniamento agisce come tecnica denaturalizzante, cioè mostra i fatti sociali esattamente come tali, non naturali bensì prodotti dall’agire storico degli uomini. Madre Courage, ad esempio, è mostrata in preda agli eventi storici e incapace di ribellarsi ai guai prodotti dal suo agire proprio perché lo spettatore, nella dialettica di immedesimazione e distanza in cui propriamente consiste la distantiation (usa la locuzione significativa di «catarsi critica») (21) , possa rimanere scosso, sconcertato dalla sua condotta e possa arrivare ad immaginare alternative di condotta possibili che sarebbe stato meglio adottare stando al suo posto. (22)
Ora, se non sono più di cinque gli scritti barthesiani di questo periodo in cui compare il termine, tuttavia sono pochi quelli in cui il senso che abbiamo appena esplicitato non venga utilizzato per produrre critica sociale ad altri livelli. In particolare, sono del tutto brechtiani e impostati sulla pratica dello straniamento denaturalizzante non solo i testi pubblicati su «Théatre Populaire», ma anche e soprattutto quelli poi raccolti in Mythologies.
L’articolo “I Romani al cinema”, ad esempio, termina con un parallelo tra il cinema pseudo-storico sull’antica Roma e il teatro di Stanislavskij: in entrambi c’è una naturalezza del segno, che è precisamente l’oggetto che Barthes si pone a smascherare. L’articolo “Il povero e il proletario”, dedicato a un film di Chaplin (già molto stimato da Brecht), si richiama a Brecht per denunciare la naturalezza dei mali occorsi a un personaggio, mentre in “Dominici o il trionfo della letteratura” si proclama «assassino legale» chi ruba il linguaggio, cioè chi priva il segno del suo statuto semiotico – diremmo oggi – per annetterlo al regno della natura e del creato.
Sono tanti e tali i luoghi di Miti d’oggi in cui il brechtismo viene praticato più o meno velatamente, che sarebbe tedioso e inutile annoverarli tutti. Più utile è soffermarci un attimo sul saggio conclusivo, “Il mito, oggi”, che infatti elegge esplicitamente il brechtismo a filosofia fondante. La teoria semiologica elaborata in questo testo è piuttosto complessa e del tutto superata; non ci interessa esplorarla a fondo in questa sede, bensì coglierne l’impostazione di base.
Il mito è un complesso semiologico che si compone di vari strati: significante, significato e segno complessivo di primo grado, significante, significato e segno di secondo grado (come nella connotazione, nei termini di qualche anno dopo). L’esempio famoso è quello dell’immagine di un nero in uniforme che fa il saluto militare con lo sguardo puntato sulla bandiera francese. Questa immagine è per Barthes un sistema semiologico del secondo livello perché a un primo livello significa semplicemente un nero in atto si saluto, ma a un secondo livello vuole esprimere la grandezza dell’impero francese mediante la devozione anche dei suoi figli acquisiti da poco (in quel periodo la Francia era scossa dalla guerra d’Algeria…). Si celebra qualcosa deformando un’immagine che potrebbe portare a denigrare quel qualcosa se l’immagine fosse appena diversa. La contraddizione storica tra il primo livello e il secondo è cancellata in favore dell’accordo completo fra di essi. La dialettica possibile tra gli strati del segno viene annullata.
I termini chiave della teoria sono quelli di senso, forma, concetto, tutti coinvolti in un gioco di sottrazione della Storia e delle sue contraddizioni dalla significazione:

Diventando forma [cioè elevandosi al secondo grado di significazione], il senso allontana la sua contingenza; si svuota, si impoverisce, la storia evapora, resta la lettera. […] E non c’è mai contraddizione, conflitto, degradazione tra il senso e la forma. […] La significazione mitica, invece, non è mai completamente arbitraria. […] Il mito gioca sull’analogia del senso e della forma. […] L’elaborazione di un secondo sistema semiologico consentirà al mito di sottrarsi al dilemma: ridotto a svelare o a liquidare il concetto, esso si risolve a naturalizzarlo. Siamo di fronte al principio stesso del mito: il mito trasforma la storia in natura. […] Tutto avviene come se l’immagine provocasse naturalmente il concetto, come se il significante fondasse il significato.(23)

La cosa fondamentale che si verifica in questo scritto per la prima volta nella sua opera, è che qui la lezione brechtiana si fonde originalmente con quella di Saussure. Proprio nel corso degli “anni-Marx”, Barthes legge il linguista ginevrino e vi trova gli strumenti adeguati per raffinare il brechtismo, per rendere la critica sociale più penetrante e tecnica nell’analisi. In particolare, la fusione si realizza tra la dialettica brechtiana Natura-Storia e il binomio saussuriano motivatezza-arbitrarietà. Come è noto, per Saussure (24) il primo principio definitorio della natura del segno linguistico era la sua arbitrarietà, cioè il fatto di essere parte di un sistema linguistico compatto che dipende, per il suo funzionamento, da leggi immanenti e non da analogie con il mondo esterno che motivassero i significanti ad essere necessariamente così piuttosto che altrimenti. Barthes legge in quest’idea la possibilità di rendere scientifica-linguistica l’idea brechtiana per cui non si deve mai mostrare la prassi umana e i suoi prodotti come qualcosa di naturale. Referenziale e motivato, da un lato, e naturale e fatale dall’altro divengono a questo punto sinonimi; parlare di fatti storici piuttosto che di fatti semiologici, diviene a questo punto indifferente.
Vale la pena di soffermarci un momento, a questo punto, sulle radici e sulle implicazioni storico-filosofiche di questa concezione, con particolare riferimento al concetto di Natura. In Brecht “naturale” (“natürlich”) e “Natura” (“Natur”) erano vocaboli che disegnavano esattamente la sfera della semantica borghese e della semantica nazista. Da un lato, il teatro borghese, non a caso definito tradizionalmente naturalistico, era a Brecht inviso per il fatto di mostrare uno stato di cose (il salotto, le vicende familiari ecc.) come dato per natura e perciò immodificabile. La quarta parete era appunto quel limite oltre il quale lo spettatore non poteva intervenire. “Naturalmente” (“natürlich”), in tedesco come in italiano, oggi come ieri, significa non a caso “è ovvio”. E anche Hitler «vuole convincere il pubblico ad accettare le sue azioni come azioni semplicemente umane, naturali ed ovvie, a dargli semplicemente il proprio consenso. Questo [i comizi di Hitler in pubblico] è un teatro molto interessante […] anche soltanto perché ha assai più a che fare con quello che vediamo sui palcoscenici». (25) Lo straniamento era per il drammaturgo di Augusta una tecnica storicizzante proprio nel senso di sottrarre le cose alla sfera dell’ovvietà borghese, della natura nazista. (26) 
Con questa concezione, Brecht si situa in una precisa serie filosofica, che trova nel giovane Lukàcs e poi in Sartre e in Merleau-Ponty i loro esponenti di spicco. In Storia e coscienza di classe, ad esempio, Lukàcs aveva negato alla Natura la dialettica, riservandola invece al solo ambito sociale. (27) Nella sua tarda Prefazione alla stessa opera, invece, Lukàcs rimprovererà a quel testo di non aver, così facendo, ereditato l’insegnamento vero di Marx, che aveva spesso non a caso dichiarato la sua stima per Darwin, e di Engels, la cui importante opera Dialektik der Natur costituirà riferimento costante del tardo Lukàcs. (28) La sua lotta alla decadenza e all’irrazionalismo si coniugherà costantemente, infatti, con l’elaborazione di un’estetica che riconoscerà alla Natura un posto centrale, alla sua dialettica una grande importanza e al fenomeno della catarsi un ruolo di primo piano.
In questo senso va letto, tra parentesi, il suo problematico rapporto con Brecht. Al di là delle polemiche che li videro protagonisti in piena affermazione dell’ortodossia staliniana (nei primi anni ’40 Lukàcs includeva nella tendenza decadente dell’arte anche Brecht, il quale però evitava di esporre pubblicamente le sue obiezioni, forse per interesse personale, forse per non creare ulteriori spaccature nel fronte antinazista) (29), il loro rapporto personale fu contraddistinto da un misto di stima e biasimo. Da un lato, il drammaturgo tedesco si avvicinò al marxismo sul finire degli anni ’20 proprio in seguito alla lettura di Storia e coscienza di classe, oltre che alla frequentazione fondamentale dei corsi universitari di Karl Korsch, e tuttavia lo criticò fortemente negli scritti sul realismo per il suo veto alla sperimentazione che Brecht reputava, quello sì, formalista. Dall’altro il filosofo ungherese attaccò Brecht negli anni ’40 per il suo eccessivo sperimentalismo e per il suo didascalismo semplicistico, e tuttavia lo rivalutò molto in tarda età, dopo averne letto i drammi maturi, che prese persino ad esempio – paradossalmente – della sua estetica catartica. (30)
Storia e coscienza di classe fu tra l’altro letto e citato favorevolmente da Merleau-Ponty nel 1955 (31) e da Sartre nel 1960 (32) ed essi stessi furono poi coinvolti nella polemica tardo-lukàcsiana contro la sottrazione della dialetticità alla natura. Per questi filosofi francesi natura voleva dire, come per Brecht, immodificabilità e dunque arenamento della prassi politica. Il dibattito negli anni ’50 e ’60, come si vede, era molto vivo ed è al suo interno che va collocata la posizione barthesiana, per la quale praticare la mitologia, cioè la scienza del mito, valeva dire praticare una sua denaturalizzazione, ovvero anche una sua disalienazione, spingerlo di forza all’interno di uno stato di cose nuovamente riconosciuto come storico.  
Straniare, denaturalizzare, disalienare, demistificare e demitificare volevano dire per Barthes la stessa cosa. E per capire la centralità della dimensione dialettica in questo quadro, basti pensare al fatto che già in Brecht straniare voleva dire estrarre l’uomo dalla dimensione della Entfremdung, cioè appunto della alienazione sociale in cui nessuno più si riconosce responsabile del suo lavoro, delle sue azioni, dei suoi prodotti, del proprio destino e di quello della sua specie. (33)
A questo proposito si legga la fondamentale tabella tratta da scritti di Brecht purtroppo inediti in italiano dove si indicano Verfremdung ed Entfremdung legate da una relazione logica hegeliana del tipo antitesi-sintesi, per cui la prima supererebbe, negandola, la seconda:

Dialettica ed estraniamento

1)
Estraniamento come un comprendere (comprendere – non comprendere – comprendere), negazione della negazione.
2)
Accumulo delle incomprensibilità, finché interviene la comprensione (trasformazione di quantità in qualità).
3)
Il particolare nel generale (il processo nella sua singolarità, unicità, da qui il tipico).
4)
Momento dello sviluppo (il trapassare del sentimento in altri sentimenti di tipo contrario, critica e immedesimazione in uno).
5)
Contraddittorietà (quest’uomo in queste relazioni, tali conseguenze di tale atteggiamento!)
6)
L’uno compreso mediante l’altro (questa scena, dal senso in un primo momento autonomo, viene svelata come facente parte ancora di un altro senso attraverso la sua relazione con altre scene).
7)
Il salto (saltus naturae, sviluppo epico con salti).
8)
Unità dei contrari (nell’unicità viene cercato il contrario, madre e figlio – ne “La madre” – uniti verso l’esterno, combattono l’uno contro l’altro a causa del salario).
9)
Praticabilità del sapere (unità di teoria e pratica). (34)


Ma la centralità della dimensione dialettica all’interno del concetto barthesiano di distantiation è sottolineata anche dal fatto che il mitologo, per disalienare i fatti sociali, deve utilizzare una strategia sarcastica, laddove è noto che ironia e sarcasmo sono, ciascuno a suo modo, dei metodi per oggettivare qualcosa, cioè per porlo ad oggetto, renderlo altro e distante da sé e criticarne i valori di riferimento fingendo però di condividerli: “pretendo di vivere pienamente la contraddizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la condizione della verità”. (35)
In definitiva, è chiaro che in questo primo periodo teatrale, per Barthes il concetto di straniamento è strettamente dialettico, tanto che la dialettica storica e logica, di matrice hegeliano-marxiana, pare costituirne il nocciolo duro. Mostreremo tra poco come in seguito questa idea sia pian piano mutata, e come lo straniamento abbia progressivamente sempre più riguardato, ed anzi abbia contribuito a delinearlo, il paradigma della differenza. Prima di passare all’analisi del concetto nel secondo periodo, però, occorre soffermarci un attimo sul trattamento che Barthes gli riserva in due saggi molto importanti posti sul limite diacronico col primo periodo. (36)
Discutendo delle fotografie che Roger Pic pubblicò di Madre Courage a Parigi, (37) Barthes si sofferma sul concetto di straniamento accusando i critici di averlo frainteso. Per costoro straniare vuol dire recitare freddamente, mentre per Barthes vuol dire recitare con misura. Fin qui, tutto bene, cioè Brecht è rispettato. A un certo punto, però, Barthes scrive:

nello straniamento la verosimiglianza della recitazione trae la propria origine dal significato obiettivo della pièce e non, come nella drammaturgia “naturale”, da una verità interna all’attore: ecco perché, al limite, lo straniamento non è un problema dell’attore, ma del regista. […] A digiuno! Diceva Brecht ai suoi attori, volendo forse purificarli dalle loro piccole emozioni personali prima di farli recitare. (38)

Abbiamo posto la frase centrale del brano in corsivo perché si tratta di una asserzione del tutto infondata. Se quello che scrive qui Barthes fosse vero, Brecht avrebbe fatto bene a dedicarsi alla drammaturgia e alla regia, ma avrebbe fatto assai male a dedicarsi al lavoro con gli attori e ad impartir loro una serie infinita di consigli e precetti. Di fatto, una buona metà della scrittura brechtiana riguardava l’arte dell’attore, così che la frase di Barthes, se accettata, verrebbe a negare l’intero spirito con cui Brecht aveva operato nell’invitare gli attori alle proprie responsabilità sociali.
Conferma di questa nostra critica, ci viene tra l’altro dalla lettura diacronica dei testi barthesiani. In particolare, non soltanto da quelli  successivi e precedenti (tutti) in cui lo stesso autore francese è lungi dal negare potenzialità stranianti all’attore (salvo non soffermarvisi per ragioni di pertinenza discorsiva), ma soprattutto da uno scritto dell’anno dopo, davvero sorprendente in questo senso.
Nel saggio del 1960 (39) non soltanto Barthes riprende tutti i concetti del 1959, limitandosi a rimodularli in relazione alla propria economia scritturale, ma del primo testo copia e incolla (per usare un’espressione anacronistica) un paio di ampi stralci tra cui proprio quello da noi poco fa citato. Ma di quello elimina proprio soltanto la frase da noi posta in corsivo. (40)  Che ci abbia ripensato per proprio conto o che la cosa sia dovuta alla critica di qualche accorto lettore non importa. Importa solo il fatto che da quest’esame diacronico la relazione straniamento-attore risulta riabilitata, e riabilitato è infondo anche lo stesso Barthes (gli strafalcioni capitano anche ai grandi, ed anzi ci aiutano a non mitizzarli).
Per concludere, dobbiamo soffermarci su un ultimo aspetto assai importante di del testo del '60, perché questo segna una differenza fondamentale di questa prima concezione con quella che sarà propria degli altri due periodi. Nella pagina successiva a quella in cui il passo del ’59 è stato incollato, pur avendo rettificato la propria posizione implicitamente nel cancellare la frase sull’attore, Barthes rimane in una certa misura fedele a quello spirito, e dichiara il senso politico della pièce residente soprattutto nella drammaturgia:

Dunque è inutile discutere dello straniamento senza riferirsi al senso politico della pièce. Creare lo straniamento, infatti, significa sovra-significare […] quando c’è qualcosa da capire Ma quando non vi è nulla da capire, quando il significato politico dell’argomento è nascosto dietro un’innocenza, quando insomma c’è una mistificazione (che per noi rappresenta la normalità), sovra-significare è andare in direzione contraria allo straniamento. [Nello straniamento] la realtà del significato oggettiva il significante, lo allontana senza che l’attore smetta per questo di recitare. […] lo straniamento non è una forma (così lo intendono tutti coloro che vogliono screditarlo); è il rapporto tra una forma e un contenuto. Per creare uno straniamento occorre un punto d’appoggio: il senso. (41)

Il contenuto di questo passo sembra scontato, ma in realtà qui Barthes sta prendendo una posizione molto precisa e netta, nonché distante per certi versi da quella brechtiana. L’intento barthesiano, beninteso, è brechtista; da ciò è motivata la sua insistenza sul rapporto forme-contenuti in cui consisterebbe lo straniamento, di contro a quella schiera di critici (in primis Lukàcs) che vi aveva letto un nuovo formalismo. Tuttavia, in Brecht non è nei contenuti che si esplica il senso politico della pièce: se così fosse, non si sbaglierebbe a leggere nei procedimenti formali dei procedimenti posti in rapporto ai contenuti, d’accordo, ma pur sempre posti tutti a livello sovra-politico e sovra-significativo. Non è un caso che Barthes si esprima proprio in questi termini. Lo straniamento sovra-significa perché si appoggia sul senso politico, un senso politico che dunque c’è già, così come costruito dalla drammaturgia e dai suoi contenuti. Ma in Brecht, lo straniamento non risiedeva soltanto nei contenuti, bensì anche negli atteggiamenti che attori scenografi registi ecc. assumevano rispetto ad essi. Non che Barthes non lo sapesse, tant’è che in alcuni passi si richiama a Benjamin, profondo commentatore dei passi brechtiani sul Gestus. (42) Tuttavia, qui è l’impostazione concettuale del problema che è fallace. Barthes ragiona ancora in termini di forme e contenuti, il che denuncia la sua immaturità semiologica, e parla della drammaturgia brechtiana come di qualcosa che possa essere svuotato (come un contenitore) dei suoi contenuti politici. In Brecht era in parte così, ma in parte invece la Verfremdung era già descritta come un procedimento di per sé politicamente rilevante, per il fatto di produrre una fruizione critica non catartica, indipendentemente da quali fossero i contenuti affrontati. (43)

3. Brecht per Barthes nel periodo semiologico: 1958/60-1966

Passiamo ora all’esame del concetto all’interno del secondo periodo, quello “semiologico”:

Oggi la nostra società è particolarmente difficile da capire. L’uomo che ci vive non può quasi analizzarla. I problemi di classe sono divenuti impensabili nei termini che si usavano cinquant’anni fa. Viviamo al tempo stesso una società di massa e una società di classe. I grandi problemi, i problemi diretti, sembrano confusi. La stessa cultura politica sembra segnata da un momento di arresto. Questi diversi fattori influenzano la scrittura e vi si traducono. Si immagini una mente come Brecht davanti alla vita di oggi, questa mente si troverebbe paralizzata dalla diversità della vita. Il mondo diventa troppo ricco d’impulsi. Si tratta anche di fattori positivi, ma non si può negarlo. (44)

Il testo è del 1962, sono passati tre o quattro anni dall’uscita di Barthes dal teatro e un paio soltanto dall’ultimo scritto dedicato tutto a quest’arte. Un cambiamento epocale si è però verificato (o meglio Barthes ne ha compreso la portata): la società si è complessificata, gli strati sociali hanno confuso in parte i propri limiti, le condizioni strutturali dell’economia sono divenute meno strutturanti rispetto a dei fenomeni come quello delle comunicazioni di massa (la televisione nasce proprio durante il periodo teatrale mitologico barthesiano…) che davvero hanno acquisito un potere di strutturazione delle coscienze e dell’immaginario prima insospettabile.
In questo contesto, comincia a cambiare 1) la stima che Barthes ha del paradigma dialettico brechtiano, che non può spiegare la nuova complessità sociale individuando da un lato i proletari e dall’altro i capitalisti (perché la piccola borghesia sta invece allargando i propri margini), da un lato lo stato di cose e dall’altro i mezzi per cambiarlo (perché i mezzi sono essi stessi delle cose in quello stato, da cui l’impossibilità teorica, per il secondo e per il terzo Barthes, di spaccare con l’accetta referenti e segni, linguaggi e metalinguaggi…); 2) la collocazione teorica dello straniamento all’interno della scrittura barthesiana, che non rinuncia affatto alla critica, ma la ristruttura. Vediamo come, più nel dettaglio del secondo periodo.
Dal 1960 al 1966, Barthes scrive solo due testi apertamente dedicati al teatro: “Il teatro greco” (1965), la cui impostazione è indubbiamente brechtiana anche se Brecht vi è nominato poco, e “Testimonianza sul teatro” (1965) che rappresenta il testo di congedo vero e proprio ed ufficiale, di Barthes dal teatro. In questo periodo, il nome di Brecht compare solo in altri tre scritti – “L’immaginazione del segno” (1962), “L’attività strutturalista” (1963) e “Semantica dell’oggetto” (1964) – e in tre interviste – “Le cose significano qualcosa?” (1962), “Sul cinema” (1963) e “Letteratura e significazione” (1963) – dei quali scritti e delle quali interviste nessuno è dedicato interamente a Brecht. A dispetto di questo relativo impoverimento di riferimenti, tuttavia, non c’è un solo testo fra quelli citati che non sia d’impostazione nettamente brechtiana nel senso che manchi di praticare quella demistificazione di cui la distantiation è il procedimento costitutivo. Inoltre, anche molti altri testi dove né Brecht né il teatro sono chiamati in causa, il brechtismo di Barthes risulta evidente. Come detto, però, cambia la struttura concettuale che lo sorregge e che sorregge tutta la scrittura-teoria barthesiana.
Sono gli anni di preparazione e di pubblicazione di Elementi di semiologia (1964) e quindi di approfondimento della lettura non più solo di Saussure ma anche di Hjelmslev. Sono anche gli anni di confronto con una generale operazione di rilettura che Althusser va conducendo su Marx. (45) Sono quindi anni in cui i termini barthesiani vengono anche rivoltati, se serve ad adeguarli ai nuovi paradigmi, come nel caso del termine “metalinguaggio” che in tutto il periodo teatrale mitologico Barthes ha utilizzato in senso un po’ approssimativo recuperandolo dalla tradizione della logica filosofica, e che a partire dai primi anni ’60 prende ad essere utilizzato in senso nettamente linguistico-semiologico sulla base della lettura hjelmsleviana appunto.
Questa precisazione circa il termine “metalinguaggio” non ha solo lo scopo esemplificativo di illustrare un procedimento di riformulazione concettuale piuttosto comune a tutta la diacronia della produzione barthesiana, ma anche una ragione specificamente legata al problema dello straniamento. Infatti fino al 1960 Barthes aveva legato l’idea di straniamento a quella di metalinguaggio, sostenendo in maniera del tutto originale (cioè molto al di là di Brecht e in direzione già semiologica) che straniare significa sovra-significare, (46) cioè adottare un metalinguaggio. Questa scelta linguistica era giustificata, negli ultimi anni del primo periodo, dal fatto che il mito adotta un linguaggio che pretende naturale, cioè sedicente non stratificato e cioè, in definitiva, un metalinguaggio che nega se stesso in quanto tale. (47) Di conseguenza, affermare la necessità di un linguaggio apertamente storico doveva voler dire necessità di un linguaggio francamente stratificato, cioè precisamente di un metalinguaggio. Questo concetto di metalinguaggio come linguaggio di secondo grado che si dichiara apertamente, fino anzi al punto di fingere di non essere altro che ‘meta’ e di non riferirsi più ad alcun ‘linguaggio’, (48) tra parentesi, coincide con il concetto di connotazione franca che sarebbe diventato cruciale nel periodo semiologico. La difficoltà di lettura sta nel fatto che nel periodo teatrale Barthes chiama metalinguaggio quello che dopo chiamerà connotazione (e attribuisce a entrambi un valore positivo socialmente, di contro rispettivamente al linguaggio mitologico e alla connotazione ideologica) mentre nel secondo periodo distingue nettamente, sulla scia di Hjelmslev, metalinguaggio e connotazione (e smette di attribuire al metalinguaggio il valore critico straniante che invece continua ad attribuire alla connotazione franca di contro a quella ideologica).  
In questo quadro si fa più decisa quella che chiameremmo una semiologizzazione dello straniamento. Una semiologizzazione progressiva, beninteso, perché già in “I compiti della critica brechtiana” del 1956 Barthes la inaugurava, e che però trova nel secondo periodo coronamento e conclusione. Questo cambiamento di paradigma in senso semiologizzante, che verrà poi criticato da alcuni critici come Scarpetta (1979), consiste approssimativamente in quanto segue.
Innanzi tutto, come accennato, lo straniamento ha a che fare con il concetto di connotazione, che è ora nettamente semiotico. Con Hjelmslev e con il Barthes del 1964, (49) connotativo è quel linguaggio che assume a proprio piano dell’espressione un altro linguaggio, di contro al metalinguaggio che assume un altro linguaggio a proprio piano del contenuto. Ora, per il Barthes di quel periodo, de “Il messaggio fotografico” del 1961 ad esempio, (50) la connotazione è un fenomeno socialmente positivo perché si oppone ad un linguaggio naturale che fa dell’analogon con la realtà referenziale il proprio principio, cioè appunto per la stessa ragione per cui pochi anni prima era stato valorizzato positivamente il metalinguaggio. In altri saggi di Barthes, tuttavia, la valorizzazione si fa più complessa ed ambigua: da un lato è positiva la connotazione franca, cioè quel linguaggio che assume francamente ostentandolo la propria doppiezza storica, dall’altro è negativa la connotazione ideologica che quella doppiezza nasconde. (51)
Cosa c’entra in tutto questo lo straniamento? C’entra nella misura in cui innanzi tutto il concetto di ideologia è di derivazione marxista, e in secondo luogo lo straniamento viene compreso come quel procedimento con cui il semiologo smaschera l’ideologia delle connotazioni, vale a dire che in un certo senso ne trasforma la pretesa ideologicità in malvoluta franchezza. Di nuovo, il compito del semiologo è quello di far virare la Natura verso della Storia.
Il valore positivo della connotazione franca (così come quello del metalinguaggio nel senso del primo Barthes, cfr. “Letteratura e metalinguaggio” del 1959) (52) dipende poi dalla sua natura interrogativa. In questo senso il testo fondamentale è “Letteratura e significazione” del 1963:

nel momento stesso in cui legava questo teatro della significazione a un pensiero politico, Brecht per così dire affermava il senso ma non lo riempiva. […] Brecht approfondisce così lo statuto tautologico di ogni letteratura, che è messaggio della significazione delle cose, e non del loro senso (intendo sempre significazione come processo di produzione del senso e non senso in sé). […] Brecht si è avvicinato all’estremo a un certo senso (che si potrebbe chiamare a grandi linee senso marxista), ma questo senso, nel momento in cui si «rapprendeva» (si solidificava in segno positivo), egli lo ha sospeso in forma di domanda (sospensione che si ritrova nella particolare qualità del tempo storico di Brecht rappresentata sul suo teatro, e che è un tempo del non ancora). (53)

Il teatro di Brecht e tutto il suo atteggiamento è francamente connotativo perché è interrogativo: non fornisce risposte e ricette (come il marxismo lukàcsiano e staliniano) ma pone domande, non chiude il senso risolvendo i problemi ma lo apre ponendone di nuovi o rinnovandone i termini.
La cosa importante di questo scritto è che qui Barthes sancisce in un certo senso il passaggio di testimone dal teatro alla letteratura ed elegge quest’ultima a luogo d’elezione per la critica sociale. E recupera alla letteratura l’intero portato della lezione brechtiana che fino a qualche anno prima aveva praticato nella critica teatrale. D’ora in poi la nozione di teatralità andrà di pari passo con quella di romanzesco restando entrambe a crocicchio di tutta l’opera  (54) e l’attività di critico letterario sarà valorizzata criticamente nello stesso modo in cui lo era stata quello di critico teatrale. In questo senso il congedo del 1965 di Barthes dal teatro non vuol dire affatto un congedo dalla critica sociale.
Conferma ne è il fatto che nel secondo Barthes, Brecht comincia ad essere affiancato ad una serie di scrittori rappresentativi della buona letteratura e, in definitiva, comincia a costituire egli stesso un segno rappresentativo della stessa. (55) Non solo: ciò che per la nostra prospettiva è più importante, Brecht diviene segno caratteristico della stessa attività strutturalista, per il fatto innanzi tutto di aver posto l’attenzione sulla dimensione sintagmatica dei testi, (56) ponendo così le basi per un definitivo superamento della concezione secondo cui il segno rimanderebbe al referente non in virtù di relazioni strutturali con il sistema semiologico in cui è inserito, ma in virtù di un’analogia con la Natura. (E nel 1975 Barthes scriverà che l’analogia è un demone che priva gli uomini della Storia.) (57)
In questo contesto, diviene possibile leggere in modo nuovo l’idea barthesiana di struttura:

Lo scopo di ogni attività strutturalista, riflessiva o poetica che sia, è di ricostruire un “oggetto”, in modo da manifestare in questa ricostruzione le regole di funzionamento (le “funzioni”) di quest’oggetto. La struttura è dunque in realtà un simulacro dell’oggetto, ma un simulacro orientato, interessato, poiché l’oggetto imitato fa apparire qualcosa che restava invisibile o, se si preferisce, inintelligibile nell’oggetto naturale. L’uomo strutturale prende il reale, lo scompone e poi lo ricompone; è ben poco in apparenza, […] pure questo poco è decisivo; perché fra i due oggetti o i due tempi dell’attività strutturalista, si produce del nuovo. (58)
cambiare i segni (e non solo quello che dicono) significa dare alla natura una nuova ripartizione (impresa che definisce appunto l’arte) e fondare questa ripartizione non su leggi “naturali”, ma al contrario sulla liberà che hanno gli uomini di far significare le cose. (59)


Da un lato, qui, Brecht è maestro di scienza e, dall’altro, la scienza strutturalista serve a comprendere Brecht. L’idea di struttura, in particolare, evita di assumere il connotato che spesso sarebbe stato rimproverato allo strutturalismo dai suoi avversari, cioè la staticità, per divenire momento dinamico di trasformazione semiologica e sociale. Da questo punto di vista, azzarderei la proposta per cui strutturazione e straniamento vengano ad assumere, nel secondo Barthes, un valore sostanzialmente sinonimico. Non consisteva forse, lo straniamento brechtiano, proprio nel trasformare il solito in insolito, nel produrre del nuovo? Non consisteva nel far emergere in modo interessato e orientato dei tratti in un oggetto, così da renderli più evidenti degli altri, dunque riorganizzarlo, ai fini di favorirne l’intelligibilità e quindi di produrne critica?
A conferma di questa ipotesi vengono anche un intervista rilasciata nel ’68, dove Sistema della moda, uno dei libri più strutturalisti di Barthes, è dichiarato coerente con la missione mitologica di smascherare l’ipocrisia di certi sistemi di segni, (60) e uno degli scritti inaugurali dello strutturalismo classico, “Introduzione all’analisi strutturale del racconto”, del 1966, (61) che nel bel mezzo di una fitta serie di indicazioni per l’analisi del racconto ad un certo livello di complessità metalinguistica, scrive:

Ma in generale la nostra società cerca di evitare in tutti i modi possibili la codifica della situazione di racconto: innumerevoli sono i procedimenti narrativi che tentano di naturalizzare il racconto, fingendo di dargli come causa una occasione naturale […]: romanzi epistolari, manoscritti cosiddetti ritrovati, autori che hanno incontrato i narratori, film che iniziano la loro storia prima dei titoli di testa. (62)

Risulta a questo punto indubbio il legame tra funzione dell’analisi strutturale e straniamento. Ma in che senso questa semiologizzazione della Verfremdung brechtiana ne segnerebbe una svolta paradigmatica dalla dialettica alla differenza? A questo proposito bisogna ritornare al concetto di sistema e di struttura che la linguistica strutturale di derivazione saussuriana elaborò nei primi decenni del ‘900.
Per Saussure (63) la lingua è un sistema di relazioni significative nel quale non vi sono termini identici a se stessi nel senso di una identità ipostatica, bensì termini che acquisiscono il proprio senso appunto solo in relazione con gli altri e dunque dotati di una identità relativa. La lingua è un sistema nel senso che se si modifica uno dei suoi termini, come nel gioco degli scacchi, cambia tutto. Nel sistema, il cambiamento di un tratto pertinente il significante o il significato di un segno qualsiasi non è più importante, per la determinazione del suo valore, di un altro cambiamento occorso a un termine situato nelle vicinanze della rete di relazioni; nel sistema, dunque, la nozione di valore è quella fondamentale. Come nell’economia, anche nella lingua qualcosa ha valore perché può essere ritenuta equivalente a qualche altra cosa e lo può essere perché viene riconosciuta come differente da quell’altra cosa e soprattutto da altre cose ancora che non gli equivalgono affatto. E’ la differenza reciproca dei segni che li rende significativi, non la relazione uno a uno tra significante e significato. La linguistica saussuriana venne poi rielaborata in senso strutturale e funzionale dalla scuola di Praga, che nelle famose Tesi del ’29 adoperò non più soltanto la nozione di sistema ma, per la prima volta, quella di struttura, tenendo comunque intatta la lezione saussuriana per la quale nella lingua non vi sono se non differenze.    
Ora, qual è il legame concettuale tra dialettica e differenza? Da un punto di vista teorico filologico, si tratta in verità di due concetti che nei padri della linguistica moderna sono ben lontani, essendo anzi il secondo centrale e il primo quasi inesistente. Dialettica e differenza si incontrano piuttosto nel percorso successivo della scienza linguistica e quindi semiologica che lo stesso Barthes contribuisce a fondare. Da un lato il concetto di derivazione hegeliana, engelsiana-marxiana e brechtiana; dall’altro il concetto di derivazione linguistica. Nel contesto teorico degli anni ’50 e ’60, ecco congiungersi due ispirazioni molto diverse, ma in che modo?
Il punto fondamentale, sotto il profilo teoretico, (64) è che nella dialettica c’è sempre  differenza: i contrari, prima ancora di essere contrari o per il fatto stesso di esserlo, sono innanzitutto differenti. Sennonché, la dialettica hegeliana e engelsiana-marxiana ha una valenza processuale che non è propria della differenza. Una coppia minima in linguistica (ad esempio, /cane/ e /pane/) si definisce in base ad una differenza fonematica che consiste in una opposizione di valori fonici, ma non per questo si tratta di superamento di alcunché o di progressiva appropriazione da parte di un qualsivoglia soggetto in crescita. (65)
Nel periodo semiologico di Barthes, il modello dialettico in base al quale si era studiato il divario straniante tra la scena e la sala nel teatro brechtiano durante il primo periodo, è sempre meno presente. Quella che si impone è una lettura del teatro brechtiano e dello straniamento, oltre che di tutti gli altri fenomeni sociali ad essi ricondotti, secondo la categoria della discontinuità, che è un altro modo di dire differenza o discretezza nel gergo tecnico della linguistica (la lingua degli uomini è diversa dal linguaggio delle api, ad esempio, perché costituita da unità discrete, discontinue).
Già sul finire del periodo teatrale Barthes (66) aveva incentrato la propria attenzione sui fenomeni costitutivi della discontinuità teatrale brechtiana quali l’interruzione epica, i quadri scenici staccati ecc., richiamandosi anche all’esempio della pittura cinese che già Brecht aveva considerato fondamentale modello di epicità, (67) e riferendosi agli studi di Walter Benjamin appunto dedicati al teatro brechtiano. Già per il Barthes del 1959 (68) è una «sorta di ideologia differenziale che lo straniamento si incarica di chiarire e di manifestare». Inoltre, questa qualità discontinua è ripresa e sottolineata dalle fotografie di Pic del 1960 cui Barthes dedica le sue riflessioni, (69) perché esse isolano dettagli e rendono intelligibile l’oggetto proprio per il fatto di smontarlo.
Tale approfondimento del discontinuo si inaugura dunque con il 1959-60 ma si approfondisce molto soltanto nel secondo periodo. Nel 1964 Barthes, (70) ad esempio, inserisce il concetto nel titolo di un saggio dedicato a Michel Butor, “Letteratura e discontinuità”, in cui promulga le virtù dell’alfabeto in quanto costituito di unità separate – discrete, appunto – che lo rendono fattore di grande poeticità e del tutto innaturale, così come la carta politica degli Stati Uniti; nello stesso scritto, Barthes indica Brecht come maestro di una semiologia sintagmatica sulla base del ricordo di una serie di esperimenti artistici dal drammaturgo tedesco suggeriti al gruppo di «Théatre Populaire» sul procedimento del montaggio, che per definizione fa leva sul discontinuo; infine, nel 1965 Barthes  gioca sulla polivalenza semantica della differenza, allorché dichiara il teatro brechtiano un teatro eccezionalmente “distinto”, come si può dirlo di una persona elegante: non solo un teatro che si muove sulle differenze, ma che si rende differente nel senso di una distinzione fuori dal comune. (71) 

4. Brecht per Barthes nel periodo del Testo: 1966-1980

Il terzo periodo, quello “del Testo”, è segnato dalla costante e diffusa presenza del teatro, non in quanto genere frequentato, bensì in quanto energia metaforica che pervade la scrittura barthesiana. (72) Meno presente è l’uso del termine “distantiation” che compare solo in tre testi, seppur molto importanti: L’impero dei segni, (73) “Una folgorazione” del 1971 e “Brecht e il discorso. Contributo allo  studio della discorsività” del 1975. (74) All’interno di questa forbice apparentemente contraddittoria, aperta dal teatro e dallo straniamento nell’ultimo Barthes, si pone il suo brechtismo, nel quale infondo i due poli si conciliano. Il nome di Brecht torna infatti spessissimo e, con esso, il concetto e la pratica dello straniamento.
Prima di procedere con l’analisi, bisogna però ancora una volta tornare sulla periodizzazione che, secondo la nostra opzione, raggruppa nel solo terzo periodo un arco di anni molto ampio (1966-1980) includendo tra l’altro diverse fasi della famosa auto-periodizzazione operata da Barthes nel 1975. (75) Qui gli anni successivi alla fase semiologica sono ulteriormente segmentati in due momenti: il primo (1966-1972) descritto come testuale e caratterizzato dalla presenza di figure come Sollers, Kristeva, Derrida e Lacan, e il secondo (1973-1975) descritto come morale e caratterizzato dalla centralità di Nietzsche. (Senza contare che risalendo questa periodizzazione al 1975 è possibile che in seguito Barthes abbia ritenuto di diverso tipo il suo lavoro ancora successivo, salvo non ritornarvi più esplicitamente.)
Dal nostro punto di vista, tuttavia, queste discontinuità non sono altrettanto giustificate di quelle da noi individuate tra i tre periodi teatrale, semiologico e testuale. La fase che Barthes descrive come morale è in verità ancora molto centrata sulla testualità, tant’è vero che uno dei libri da lui scritti sotto l’egida di Nietzsche fu proprio Il piacere del testo. Anche dopo il 1973 centralissime rimangono le nozioni di testo e di scrittura, nonché le stesse figure di Sollers, Derrida e gli altri, che a loro volta erano influenzati profondamente da Nietzsche. Tanto centrali da non poterle affatto considerare superate né tanto meno declassate dall’impulso morale, almeno non nello stesso modo in cui la semiologia aveva scalzato la mitologia e più tardi il Testo la semiologia. Nel seguito della trattazione vedremo anche come quei nomi e quei concetti continuino a caratterizzare l’opera di Barthes, significativamente legati tra l’altro a quello di Brecht e all’ordine simbolico ad esso riconducibile. (Ancora in un’intervista del 1979, Barthes si dichiara «sempre fedele alle idee di Brecht»). (76)
Cominciamo dunque la nostra analisi del brechtismo del terzo periodo a partire da alcune osservazioni sull’attività di critica alla stereotipia che, come nel primo e nel secondo periodo, muove tutta la scrittura barthesiana. Nel '70 Barthes, (77) che riconfigura lo strutturalismo alla luce della nuova teoria del Testo, ritorna implicitamente sulle proprie posizioni del 1966 quando sostiene che andare in profondità nelle strutture narrative vuol dire infrangere l’evidenza naturale della frase che le nasconde, «che addomestica l’artificio del racconto, un senso che nega il senso». Nel '73, Barthes accusa il sapere di essere mitologico e ideologico quando in esso viene proiettato il proprio sistema di pensiero senza che ci si sia sforzati di comprendere l’altro;(78)  come a dire, l’ideologia e la mitologia dei saperi si realizzano laddove il proprio non prende le distanze da se stesso, cioè non si estrania. Tenere a distanza è appunto compito critico, nel senso che produce crisi nel linguaggio e nei suoi stereotipi, (79) laddove lo stereotipo è il senso solidificato, privo cioè della fluidità della vita, (80) l’è-ovvio, il naturale, «l’ultimo degli oltraggi». (81) Il naturale è ciò in cui la società di massa si rifugia ed è in ossequio a Brecht che Barthes studia la retorica antica, (82) che di quella società condivide l’obiettivo ultimo, la persuasione, e per questo può essere definita «aristotelica» (proprio come Brecht definiva la drammaturgia borghese). Nell’ottica della categoria dello straniamento può essere letto, infine, quel famoso saggio di Barthes in cui il Testo comincia ad essere elogiato a spese dell’autore, perché se vi sancisce «la morte dell’autore», Barthes lo fa pensando alla necessità degli autori contemporanei di distanziarsi da se stessi, appunto, mediante la propria scrittura. (83)
Da tutto ciò appare chiaro che straniamento è un concetto chiave ancora nel terzo Barthes. Il problema piuttosto è quello di capire in che senso tale concetto appaia profondamente modificato dal nuovo paradigma testuale. Per chiarirlo occorre ritornare brevemente sui tratti fondamentali del paradigma stesso.
Nella voce “Teoria del testo” scritta nel 1973 (84) per l’Encyclopaedia Universalis, Barthes parte dalla nozione classica di testo come tessuto delle parole disposte nell’opera allo scopo di confezionare un senso quanto più possibile univoco, per criticare l’idea di segno come unità fissa che vi è implicata e quindi per proporre una nuova idea di testualità aperta, nuova non solo rispetto all’accezione filologica del testo come opera ma anche rispetto a quella semiologica del testo come involucro formale dei fenomeni linguistici. Questo cambiamento epistemologico, che si pone sotto il segno del materialismo dialettico e della psicanalisi, produce una impossibilità di definire nitidamente il testo perché parte dall’idea che ogni metalinguaggio sia illusorio, perché per parlare del linguaggio si è sempre nel linguaggio e in questo circolo non è possibile prendere delle distanze obiettivanti alla maniera pretesa dalla scienza. Piuttosto, è possibile indicare i concetti intorno a cui il testo ruota (pratiche significanti, produttività, significanza, intertesto ecc.) per individuarne vagamente l’area di pertinenza. In quest’area, che Barthes descrive richiamandosi soprattutto a Kristeva, non ne va più soltanto delle differenze tra i livelli semiotici, ma anche delle differenze tra chi è chiamato in causa in questi livelli per il fatto di porsi nel linguaggio come enunciatore in costante rapporto comunicativo con l’Altro. Ne va quindi di una diversa idea di soggetto, che nel linguaggio si pone in gioco e in relazione, un soggetto che non è più un soggetto in senso classico perché, seguendo Lacan, il linguaggio lo espropria della sua autorità e della sua autonomia linguistiche e semiotiche. Il testo non è un prodotto di qualcuno posto a monte di esso, ma una produttività nella quale è coinvolto chi la produce; di conseguenza bisogna sostituire il concetto di significazione, fondativo del paradigma filologico e semiologico del testo, con quello di significanza: non si tratta di compiere l’azione del significare (è il soggetto che compie l’azione) ma di perdersi nel processo del significare, e di ricavarne un godimento, da cui la natura erotica del testo. In questo nuovo quadro, non è più possibile parlare in termini di metalinguaggio, come detto, e diviene possibile parlare in termini di sensi secondi e di connotazioni solo in modo diverso dal secondo periodo, come vibrazioni semantiche, gioco mobile di significati derivati senza possibile riferimento a uno o più significati fissi.
Appare chiaro che con questo se Barthes parla di straniamento non può certo più farlo nei termini di un rapporto tra forme e contenuti laddove i contenuti e il loro senso siano già dati come «punto d’appoggio». Nell’ottica del testo, qualunque punto d’appoggio è illusorio, o peggio è ideologico, stereotipato, mitico. D’altra parte il progetto critico brechtiano continua a nutrire il lavoro di Barthes, come abbiamo visto, ma come?
Dalla mobilità dei linguaggi, deriva l’urgenza, per il critico, di non fissarsi sui significati, ma di muovere la propria riflessione a livello soprattutto dei significanti:

Una scienza del significante […] il suo scopo non è tanto l’analisi del segno quanto la sua dislocazione. Per quel che riguarda il mito […] la nuova semiologia – o la nuova mitologia – non può né potrà separare tanto facilmente il significante dal significato, l’ideologia dalla fraseologia. La scienza del significante può soltanto spostarsi e fermarsi (provvisoriamente) a una certa distanza: non più alla dissociazione analitica del segno, ma al suo stesso vacillare. (85)

Di seguito, in questo scritto, Barthes indica il linguaggio testuale come l’alternativa al linguaggio tendenzialmente solido, si capisce quindi come scrittura testuale e attività critica si ricongiungono nel comune intento di anti-stereotipizzazione.
E’ importante, dal nostro punto di vista, che in molti scritti di questo periodo Brecht sia rievocato a fianco di Kristeva e Derrida appunto a sostegno del progetto critico-testuale. Brecht che non aveva ragionato mai in termini di testo e significanza bensì sempre in termini di forme e contenuti, risulta evidentemente trasformato, un po’ alla maniera in cui Freud veniva in quegli stessi anni trasformato da Lacan. Brecht compare sempre più spesso come figura simbolica di quella incrinatura dei segni, o semioclastia, che va attuata sulla base, tra l’altro, del nichilismo nietzschiano. (86)
Il connubio tra freudismo, nichilismo e marxismo era d’altronde molto in voga nella Parigi di quegli anni, dove tra l’altro avveniva il recupero di una serie di autori marxisti eterodossi (Bachtin riscoperto da Kristeva su tutti, ma anche Ejzenštejn e lo stesso Brecht) (87) che offrivano agli intellettuali francesi un’alternativa al paradigma staliniano. Si tratta di una combinazione attuata in vari modi e gradi anche dagli stessi Kristeva, Derrida e dal gruppo della rivista «Tel Quel» a cui Barthes collaborò in parte e tangenzialmente. L’idea molto diffusa era fondamentalmente che per decostruire l’ideologia bisognava anzi tutto produrre in essa delle spaccature, delle crisi discrete che, non potendo venir prodotte dall’esterno di un impossibile metalinguaggio, dovevano essere prodotte seguendo la stessa logica di produzione linguistica comune, non rovesciandola quindi, ma spostandola e deviandola in modo anche sfumato. Di qui anche l’incontro, in Barthes come in molti altri, di linguaggio critico e linguaggio artistico, nonché l’idea che con il linguaggio a funzione estetica si realizzi una critica sociale indipendentemente dai “contenuti” da esso assunti. (88) In Barthes come in Lacan, inoltre, liberare il significante voleva dire liberare il soggetto dalla reclusione nel linguaggio; sancire poi l’eroticità del testo e della scrittura romanzesca significava mettere una pietra sopra al classico dualismo mente/corpo. (89)
Un tale cambiamento epistemologico diffuso si concretizzava nel concetto di differenza. Deleuze e Derrida ne facevano parola d’ordine della loro scrittura, ma anche Lacan e Foucault l’attraversavano, tanto da poterla considerare davvero come un concetto paradigmatico di una episteme. (90) Un concetto, tra l’altro, nel quale ben trovavano espressione le diverse anime dell’ambiente intellettuale del periodo: lo strutturalismo saussuriano, come detto, ma anche le teorie lacaniana, bachtiniana-kristeviana e lévinasiana dell’Altro, nonché il movimento femminista e, in filosofia, il lascito di Martin Heidegger con il suo fondamentale Identità e differenza.
Nel 1971-72 Umberto Eco (91) ha fornito un’immagine complessiva di questa congerie teorica e intellettuale, mostrando come in essa si siano verificate da un lato l’estremizzazione dell’affermazione strutturalista per la quale nella lingua non vi sono se non differenze finendo per affermare che nella realtà non vi sono se non differenze e dunque che la differenza è la categoria filosofica per antonomasia, e dall’altro l’abbattimento dello strutturalismo letto come l’ultimo avamposto della metafisica della presenza, dedito alla ricerca dei riferimenti stabili del senso. Ciò che si verificava in quegli anni, dunque, era proprio il passaggio dal paradigma della dialettica al paradigma della differenza. Con l’elevare quest’ultima a categoria filosofica fondante si ponevano le basi per una nuova concezione del soggetto come senza fondamento, dell’essere come mai positivamente accertabile e della vita come gioco. (92)
Di tutto ciò Barthes non poteva non risentire ed infatti si confrontò volentieri con l’ambiente circostante, finendo pure per assumerne alcune fondamentali posture teoriche. Non al punto, tuttavia, di fondere in esso la sua scrittura, nella quale pure la dialettica trapassava nella differenza, ma nel modo specifico che vedremo ora a partire da due  passi della metà dei ’70 significativamente intitolati “Plurale, differenza, conflitto” e “La catena dei discorsi”:

La differenza, parola insistente e molto decantata, vale soprattutto perché essa abolisce o sconfigge il conflitto. Il conflitto è sessuale, semantico; la differenza è plurale, sensuale, testuale; […] la differenza ha l’andamento di una polverizzazione, d’una dispersione, d’un bagliore: non si tratta più di ritrovare, nella lettura del mondo e del soggetto, delle opposizioni, ma dei traboccamenti, delle invasioni, delle fughe, degli scivolamenti, degli spostamenti, degli slittamenti. (93)
E’ perché il linguaggio non è dialettico (permette il terzo termine solo come clausola, asserzione rettorica, pio desiderio) che il discorso (la discorsività), nella sua spinta storica, si sposta a
sbalzi. Ogni discorso nuovo può scaturire solo come il paradosso che investe a ritroso (e spesso a parte) la doxa attuale o precedente, può nascere solo come differenza, come distinzione, distaccandosi contro ciò che gli sta accanto. (94)


In questo senso nuovo della differenza, molto influenzato dalle lotte del femminismo, bisogna leggere tutti i passi barthesiani del terzo periodo dedicati al tema centrale, e costante in tutti e tre i periodi, della discontinuità. Così è ad esempio nello scritto del ’73 “Brecht, Diderot, Ejzenstejn”, (95) ripreso anche nel '75, (96) che tematizza questo concetto richiamandosi proprio a Brecht e tornando sulle idee già espresse in occasione del commento alle fotografie di Pic, (97) sull’importanza dell’interruzione per l’intellezione e per il fare politico in senso più ampio. Così è anche in “Una folgorazione” del ’71, (98) che torna a definire il teatro di Brecht un teatro distinto. Così è per Barthes nel 1975 (99) che si sofferma molto sull’importanza della scrittura frammentaria che pratica mentre predica, dopo averla praticata senza predicarla già in Mythologies e in molti altri luoghi; infine, è così in “Brecht e il discorso” del 1975 (100) che si scaglia contro quel pensiero della continuità che già nel 1968 Barthes (101) definiva come uno dei super-io delle scienze umane.  
E’ questo il nuovo contesto in cui bisogna inquadrare le analisi barthesiane che richiamano lo straniamento ed in questo senso particolarmente significativi sono due testi, L’impero dei segni e il citato “Brecht e il discorso”.
Nel primo testo, lo straniamento è evocato a proposito del teatro giapponese del bunraku, il cui palcoscenico è animato da bambole alte circa un metro che vengono manipolate da un gruppo di tre persone dietro di esse, vestite di nero e col volto neutro in modo da non attrarre troppo l’attenzione su di sé ma, ciò non di meno, da restare visibili come autori dell’artificio, mentre la voce di altri attori-cantanti viene data a quelle bambole da un ulteriore punto dello spazio scenico:

Come Brecht aveva intuito, qui regna la citazione, la presa di scrittura, il frammento del codice, perché nessuno dei promotori del gioco può assumere su di sé il carico di ciò che non è il solo a scrivere. Come nel testo moderno l’intreccio dei codici, delle referenze, delle constatazioni separate, degli atti antologici, moltiplica la linea scritta, non già grazie alla virtù di qualche richiamo metafisico, ma grazie al gioco di una combinatoria che si apre allo spazio globale del teatro: ciò che è cominciato da uno è continuato dall’altro, senza posa. (102)

Nel libro di Barthes, che egli definì poi come una mitologia felice (cfr. Barthes 1981) e che non è casualmente strutturato secondo una logica del frammento e della discontinuità scrittura/immagini (come d’altronde lo sono Sade, Fourier, Loyola, Il piacere del testo, Barthes di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso ecc.), Brecht torna anche nei capitoli intitolati alle categorie “animato/inanimato” e “dentro/fuori”, (103) le quali erano proprio definitorie in Brecht della dialettica estraniante. Ed è significativo che proprio questo libro, il quale nel suo insieme ci pare motivato da una strategia straniante che tra l’altro fu tipica non solo di Brecht ma di tutti i maestri della regia del ‘900, vale a dire muovere critiche profonde alla cultura occidentale e alla sua arte valorizzando per contrasto l’oriente, è significativo che proprio in questo libro, e proprio laddove si parla de «il volto scritto» del teatro No, Barthes ne dica che si tratta di un volto che congeda ogni significato e di una scrittura che non serve a dire nulla. (104) Si tratta forse della punta più nichilista del brechtismo barthesiano, totalmente lontana com’è evidente dalla concezione di un qualsivoglia senso inteso come punto d’appoggio dello straniamento. Uno straniamento che a questo punto non può che giocare alla deriva dei significanti e che si allontana in misura considerevole da quello che era stato nel primo Barthes (e in Brecht).
Nell’altro testo fondamentale di questo periodo in cui si sviluppa esplicitamente la nuova teoria dello straniamento, “Brecht e il discorso” del 1975, viene proposta l’idea forse più originale e fruttuosa di tutta la riflessione barthesiana su questo concetto. Punto centrale del testo è ancora una volta la critica del continuum, di contro alla proposta di una scrittura del discontinuo in cui viene di nuovo richiamato l’universo giapponese:   

L’opera di Brecht si prefigge di elaborare una pratica della scossa (non della sovversione: la scossa è molto più «realistica» della sovversione). […] In che cosa consistono allora lo straniamento, la discontinuità provocati dalla scossa brechtiana? […] la scossa è una ri-produzione; non un’imitazione, ma una produzione distaccata, che fa rumore.  Più che di una semiologia, dunque in Brecht dovremmo prendere in considerazione una sismologia. Strutturalmente, che cos’è una scossa? Un momento difficilmente controllabile (e perciò antipatico all’idea stessa di «struttura») […] la scossa è netta, discreta (nei due sensi del termine), rapida, ripetuta se necessario, ma mai permanente (non è un teatro della sovversione, non implica nessuna grande macchina contestataria). (105)

Si tratta di un passo ricchissimo di allusioni e ambiguità semantiche su cui Barthes gioca, come suo solito, per creare a sua volta quelle scosse di cui parla. La scossa straniante, ad esempio, è definita realistica nel senso che si inquadra nel progetto del realismo artistico, ma anche nel senso che è più facilmente realizzabile, più plausibile di altre spinte estreme per le quali la tradizione va riformata da cima a fondo in modo da non lasciarne più traccia (è il caso di certe avanguardie, criticate da Barthes per il loro carattere troppo utopico). La scossa straniante, poi, fa rumore sia nel senso dello spillo giapponese di cui si parla poco prima nel testo, sia nel senso della teoria dell’informazione diffusa nella semiologia degli anni ’50 e ’60, sulla base della quale effettivamente era stato possibile rileggere lo straniamento come quel fatto comunicativo che crea interferenze nello scambio trasparente delle informazioni. (106) La scossa è discreta, infine, nel senso della discretezza perché crea discontinuità nel flusso discorsivo, ma anche nel senso della discrezione perché scuote in modo misurato al di là degli squilibrati estremi non realistici di certe avanguardie, appunto.
Si tratta quindi di un passo animato da un’intuizione originalissima: semiologia dello straniamento come sismologia delle scosse stranianti. Troppo originale, forse, e provocatoria, per essere presa sul serio (come difatti non è stato mai fatto). Diversamente, secondo noi, la semiotica anche odierna farebbe bene a rivolgersi alla sismologia vera e propria, quella di ambito geofisico, per mutuarne strumenti d’analisi in una difficile ma opportuna conciliazione. Una conciliazione che potrebbe essere metodologica ed epistemologica, cioè concernente i concetti e i metodi d’analisi e di elaborazione teorica per lo studio di un dispositivo, lo straniamento, di cui bisognerebbe indagare i meccanismi costitutivi di volta in volta diversi a seconda del testo, così come diversi tra loro sono i terremoti a seconda della zona in cui scoppiano. Una sismologia semiotica potrebbe ad esempio parlare del testo come della crosta terrestre in cui scoppia il sisma straniante, considerare il contesto come quell’area territoriale in cui gli straniamenti testuali si propagano a maggiore o minore velocità, servirsi dei concetti di ipo- ed  epi-centro per parlare dei punti più o meno superficiali dei discorsi e dei testi in cui si verifica l’attrito tra le faglie testuali, con maggiore o minore energia a seconda che lo straniamento compia un lavoro più o meno grande, ecc.  (107)
Di queste intuizioni sparse ma preziose, Barthes fece un vero e proprio bacino di linfa teorica, in modo da costruire e mutare i suoi concetti di testo, scrittura ecc. in relazione stretta, anche se spesso implicita, con lo straniamento. Non è difficile ipotizzare, da questo punto di vista, che la sismologia possa essere una versione sinonimica della semioclastia di cui si è già parlato e soprattutto di quella scienza degli strati discorsivi che Barthes individua nella bathmologia. (108) E se i due saggi sopra citati rappresentano la massima punta di elaborazione teorica dello straniamento, Barthes di Roland Barthes è certamente il testo in cui meglio e più completamente viene ad esercitarsi questa nuova idea. Non solo perché si tratta di un testo frammentato e discontinuo, e non solo perché Brecht vi figura esplicitamente come una specie di super-io teorico politico che torna qua e là ad ammonire Barthes per sua stessa voce laddove questi senta più necessario il suo intervento (cfr. ivi: 62 e 116), ma anche perché si tratta di un testo in cui gli strati del linguaggio si moltiplicano e, con esso, i suoi soggetti. Da questo punto di vista, è molto significativo che la scrittura barthesiana si declini alternativamente in prima e in terza persona singolare. E’ un continuo esercizio di immedesimazione-distanziazione, interruzione-rimessa in moto, dentro-fuori di Barthes autore in Barthes personaggio, recitazione-narrazione, fedele in questo alle indicazioni sull’epicizzazione (Episierung) impartite da Brecht ai suoi attori. (109)
L’ultimo testo fondamentale che citiamo come esemplare non solo del brechtismo barthesiano, ma della sua evoluzione in senso testuale, è Lezione (Barthes 1978), cioè il discorso inaugurale che Barthes tenne al Collège de France per celebrare il proprio conferimento della cattedra di semiologia letteraria. Si tratta di un luogo emblematico nella nostra ottica, perché qui Brecht viene esplicitamente richiamato e coniugato con la lezione di un grande intellettuale dell’epoca, colui che presentò Barthes al Collège, vale a dire Michel Foucault. Il quale negli anni ’70 pubblicava dei libri che avevano (ed avrebbero avuto in seguito) grande risonanza nel pensiero politico contemporaneo. In L’ordine del discorso o in Microfisica del potere, ad esempio, Foucault sosteneva l’idea del carattere strettamente relazionale dei rapporti di potere, laddove essi non potevano più essere pensati nella forma di una dialettica a grandi blocchi, ma appunto di una microscopica diffusione attraverso le maglie della società a tutti i suoi livelli, anche minimi. Di conseguenza, aveva sostenuto Foucault, non si tratta di organizzarsi contro il potere in qualcosa che si voglia come unico focolaio di rivolta, perché nessuno può sentirsi escluso dal potere e dalla sua microfisica omnipervasiva.    
Nella Lezione di Barthes, come ha notato Eco, (110) quest’idea è centrale al punto che quella barthesiana non sarebbe che una sua traduzione in termini più linguistici. Secondo Barthes, la lingua con i suoi codici e le sue regole, sarebbe il luogo mostruoso della massima stereotipizzazione, l’oggettivazione perfetta della alienazione: «Parlare, e a maggior ragione discorrere, non è, come si ripete troppo spesso, comunicare: è sottomettere: tutta la lingua è una predeterminazione generalizzata.» (111)  Ora, poiché dal linguaggio non è dato a nessuno uscire, il movimento dialettico del rovesciamento diviene impossibile. Non resta che muoversi per rotture sfumate, scosse appunto, che trovano il loro luogo d’elezione nel «teatro» della letteratura. E’ importante che Barthes utilizzi questa parola per descrivere il luogo della disalienazione possibile: non si tratta di una metafora generica, ma di una metafora che ci riconduce specificamente al teatro brechtiano, a giudicare dal contesto in cui si esprime. Ancora dopo le fasi mitologiche e semiologiche, nel momento in cui cioè il concetto di forma è totalmente sorpassato, Barthes continua infatti a usare la locuzione con la quale aveva proposto il brechtismo in Francia negli anni ’50: la letteratura è «responsabilità delle forme».(112) Ma ora agire sulle forme non vuol dire più, come nei ’50, agire sul rapporto che esse intrattengono coi contenuti. Agire sulle forme significa agire direttamente sul mondo, dal momento che il mondo è le sue forme; perciò cambiare i segni vuol dire per Barthes cambiare il mondo. E questo cambiamento, si badi, non va in direzione di un impegno partitico, né tantomeno di chiarire un senso inteso come già dato da una qualche drammaturgia posta a monte, o da un qualche progetto politico, ma nella direzione meramente ludica di una rimessa in discussione totale e costante: si tratta di «far giocare i segni», senza pretendere di farli significare, ma solo di non farli solidificare. In questo Barthes testuale e nichilista, dunque, Brecht non manca di essere semiologizzato; solo che lo è nell’ottica di quella strana semiologia attuata da Foucault e Sollers; non si tratta di finire il segno (come molti dicono dell’ultimo Barthes), ma di rifinirlo, straniandolo in modo sempre differente.

5. Conclusioni

In conclusione, il percorso barthesiano è anche chiaramente il percorso di una teoria del teatro, e più specificamente di una teoria brechtiana del teatro, e più specificamente ancora di una teoria brechtiana dello straniamento, non solo teatrale, ma culturale e politico nel senso più lato. In Barthes, lo straniamento è sempre pensato come una pratica di demistificazione semiotica, ma questa pratica è teorizzata e praticata in modo diverso nel tempo. Si passa da un modello dialettico in cui straniare significa rivelare un senso che sta già dietro e che è definibile come punto d’appoggio delle forme stesse (primo periodo), ad un modello strutturale in cui straniare significa dare una nuova ripartizione ai segni senza che però questo significhi rivelare un senso nascosto e preesistente (secondo periodo), ad un modello per cui straniare vuol dire spostare i segni, farli giocare, consapevoli tuttavia che non è dal di fuori che si comanda il gioco.
A questo punto, tuttavia, si pone un problema. Uno straniamento fondato sulla differenza piuttosto che sulla dialettica è ancora definibile come straniamento? Barthes aveva sempre avuto Brecht come riferimento teorico ed il suo è sempre stato un modo per perpetrarne l’eredità. Ma i suoi cambiamenti, e i cambiamenti sociali e teorici all’interno e a causa dei quali Barthes visse i propri, devono essere considerati talmente radicali da non poter più parlare di vero e proprio brechtismo? Il problema a nostro parere resta aperto, e qui non possiamo fare più di una breve riflessione.
Nel secondo ‘900 il marxismo ha sentito l’esigenza di ripensare a fondo le sue categorie, anche e soprattutto in seguito all’incrocio con un'altra filosofia, del tutto estranea all’impianto brechtiano: il freudismo. Le idee marxiane di soggetto, forma, contenuto, socialità, ecc. sono state trasformate dopo la morte di Brecht. Il mutamento dei paradigmi filosofici, il passaggio da un pensiero forte della dialettica a un pensiero debole della differenza, hanno infondo rafforzato il dubbio circa il confine tra il sociale e l’asociale che già restava nebbioso in Brecht. Il potere è divenuto, con Foucault, questione di microfisica, categoria pregnante a tutti i livelli del sociale, lungi dall’essere esercitato solo da alcune classi su altre. La stessa lettura della società come strutturata su base economica e sovrastrutturata in altre forme meno fondamentali, è stata messa progressivamente in discussione. Infine il linguaggio, lungi dall’essere letto come strumento d’indagine realistica di una realtà dialetticamente pensata come oggetto, si è frammischiato alla realtà stessa ed è divenuto componente fondamentale del sociale alienato, donde la necessità di fare politica innanzi tutto mediante una critica del linguaggio stesso. Da questo punto di vista, perde di forza il monito di Brecht a non praticare una «pura e semplice parodia» (113) perché in quest’ottica non esiste una parodia che non sia allo stesso tempo critica di quell’elemento fondamentale della nostra società che è il linguaggio.
Significativamente, accanto a queste trasformazioni sociologiche e teoriche, il secondo ‘900 ha visto gradatamente affermarsi anche un nuovo paradigma drammaturgico e teatrale in cui il soggetto, l’«io narrante» fondativo del modello epico (114)  si è disperso in una pluralità di voci; anche la forma drammatica si è frantumata ben oltre la semplice negazione del naturalismo e delle tre unità aristoteliche,  tutto a vantaggio di una forma che recentemente è stata definita «post-drammatica» (115) con una formula che ricorda da vicino il «post-moderno». Figure cruciali di questo passaggio sono state, ad esempio, il Living Theatre (che ha mescolato l’eredità brechtiana con quella artaudiana), Samuel Beckett (verso il quale si dice che Brecht prima di morire provasse un grande interesse) e soprattutto Heiner Müller. (116)
Diciamo “soprattutto” perché è stato Müller l’artista riconosciuto dal pubblico, dalla critica, dall’accademia e dal mondo istituzionale come il più importante erede di Brecht nella DDR. Ebbene, in Müller la lezione brechtiana è restituita nella forma di un realismo ben diverso, dove il montaggio della drammaturgia viene ad assumere un ruolo non più riconducibile all’alternanza epica di narrazione e azione, né alla ricerca del tipico, né alla dialettica estraniante avente come protagonisti delle classi ben individuate. A differenza della drammaturgia brechtiana – dove le unità di azione spazio e tempo erano certo abolite, e tuttavia il lettore trovava sicuri riferimenti nell’attore, nel personaggio, nel tempo cronologico e lineare della favola, nei confini spazio-temporali della situazione ecc. – la drammaturgia mülleriana, atopica e atemporale, dove corpi di attori e personaggi vengono attraversati impersonalmente da voci, pone il lettore in una condizione di disorientamento ben diversa. E se in Müller quei riferimenti vengono a mancare, ciò accade ancora nel rispetto di quello stesso atteggiamento realista in cui Brecht s’era prodotto.
In definitiva, il problema che resta aperto potrebbe anche essere espresso così. Essendo lo straniamento in origine dialettico perché pensato da Brecht in base a un atteggiamento fondamentalmente sociologico nell’ambito di una società dialetticamente comprensibile, attenere lo straniamento alla dialettica sarebbe stata una mossa più brechtiana, oppure avrebbe significato tradirne l’eredità, dal momento che la dialettica stessa, intanto, si rivelava incapace di comprendere una società sempre più differente?

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(1)  Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino 1988, p. 170.
(2)  Cfr. Roland Barthes, Sul teatro, a cura di Marco Consolini, Meltemi, Roma, 2002.
(3)  Cfr. soprattutto gli studi riportati in bibliografia di Marco Consolini,  Marco De Marinis, Bernard Dort, Gianfranco  Marrone, Jaques Rivière, Jean Pierre Sarrazac e Sarah Vajda.
(4)  Cfr. Fredric Jameson, Brecht and Method, London and New York, Verso, 1998 e Georges Didi-Huberman, Quand les images prennent position. L'Oeil de l'histoire, 1,  Les Éditions de Minuit, Paris, 2009.
(5)  «Immedesimarsi è pericoloso comunque, indipendentemente dalla pericolosità della via su cui si viene trascinati […] Non fosse che per il fatto che il fenomeno dell’immedesimazione rende impossibile, a chi lo subisce, riconoscere se la via sia pericolosa o no» Bertolt Brecht, Scritti sul teatro, Einaudi, Torino 1975, vol II, p. 58.
(6)  Le periodizzazioni più schematiche e famose della propria opera Barthes le produsse in Barthes di Roland Barthes, Torino, Einaudi, 2007 [ed. or. 1975] e L’avventura semiologica, Torino, Einaudi [ed. or. 1974]. La nostra proposta disegna dei contorni temporali a grandi linee, ma non esattamente, congruenti con quelle dell’autore, per alcuni motivi che dovrebbero chiarirsi nel corso della trattazione.
(7)  Cfr. Gianfranco Marrone, “Prefazione” a Roland Barthes, Scritti, Einaudi, Torino 1998, p. XXVI.
(8)  Sull’utopia del grado zero nel teatro cfr. Gianfranco Marrone, “Postfazione” a  Roland Barthes, Sul teatro, cit.
(9)  Per una storia dettagliata di questo periodico, cfr. Marco Consolini, Théatre Populaire. 1953-1964. Storia di una rivista militante, Bulzoni, Roma 2002. Per approfondimenti sull’opera di Bernard Dort, cfr. di nuovo i suoi scritti citati in bibliografia.
(10) Il limite superiore di questo periodo non coincide con quello di Roland Barthes, L’avventura semiologica, cit.  cioè il 1964, perché abbiamo ritenuto più giusto, contro lo stesso Barthes, accludere alla ricerca semiologica l’importante scritto Introduzione all’analisi strutturale del racconto che è del 1966.
(11) Edgar Morin, “Le retrouvé et le perdu”, in «Communications», 36, 1982.
(12) Philippe Roger, “Barthes dans les années Marx”, in «Communications», 63, 1996.
(13) Cfr. Marco Consolini, “L’eccesso e la distanza. Roland Barthes e il teatro”, in «Rivista di letterature moderne e comparate», n. 3, luglio-settembre, 2002.
(14) Ora in Roland Barthes, Sul teatro, cit., pp. 205-206.
(15) Cfr. ad es. Roland Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 [ed. or. 1957] pp. 194 e 237.
(16) Cfr. Roland Barthes, cit., p. 362.
(17) Ora in Roland Barthes, Scritti, cit.
(18) Poi in Roland Barthes, Saggi critici, Einaudi, Torino 2002 [ed. or. 1964], pp. 74-75.
(19) Si tratta di Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” [ed. or. 1959] e  “Commento a Madre Courage e i suoi figli” [ed. or. 1960] ora in Id., Sul teatro, cit.
(20) Cfr. Bertolt Brecht, Scritti teatrali, cit.
(21) Roland Barthes, Miti d’oggi, cit., p. 104.
(22) Cfr. l’articolo del 1954 “Madre Coraggio cieca” , ora in Roland Barthes, Saggi critici, Einaudi, Torino 2002 [ed. or. 1964].
(23) Cfr. Roland Barthes, Miti d'oggi, cit., pp. 199, 205, 207, 210, 211.
(24) Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 2001 [ed. or. 1916], pp. 85ss.
(25)  Bertolt Brecht, Scritti teatrali, cit., vol. I, p. 56.
(26)  Si consideri che Brecht aveva inventato ed elaborato il termine e la teoria della Verfremdung negli stessi anni in cui Hitler ed il partito nazionalsocialista si erano affermati democraticamente in Germania. La cronologia rivela un parallelismo impressionante. Nel ’33 Hitler va al potere, del ’32 e del ’35 sono i due primi viaggi di Brecht in URSS nei quali orecchiò della teoria šklovskijana dello straniamento (ostranenije, cfr. Di Tommaso 2009); del ’35 e del ’37 sono alcune delle conferenze più importanti di Hitler sul tema dell’arte e nel ‘36 Brecht scrive sul teatro cinese il saggio in cui usa per la prima volta il termine “Verfremdung” (Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese, in Id., Scritti teatrali, cit., vol. II). Nella seconda metà degli anni trenta escono libri fondamentali del credo estetico nazista, come quelli di Rosemberg, e dello stesso periodo sono i primi più importanti lavori teorici di Brecht esplicitamente dedicati all’estraniamento.
Quanto al concetto di Natura nel Nazismo, esso va collegato alla concezione estetica del nazismo (proclamata nei discorsi di Hitler e nel suo Mein Kampf, oltre che nella citata opera di Rosemberg). Ne forniremo qui di seguito solo qualche elemento introduttivo (sulla base degli studi di Henri Michaud, The Cult of Art in Nazi Germany (Cultural Memory in the Present), Stanford University Press, Stanford 2004). Nel ’34 Hitler proclamava lo stile classico (neoclassico) come quello ufficiale dell’arte tedesca-ariana, con correlativa condanna dell’espressionismo e delle avanguardie, accusate di chiudere l’arte al passato. Per Hitler l’antichità classica (greca soprattutto, ma anche romana) era legata biologicamente alla Germania da un legame di sangue. Il genio ariano era unico ed aveva una storia millenaria che dalla classicità greca passava attraverso il medioevo gotico-germanico. Perciò l’arte del regime ibridava gli stili: figure umane in stile neoclassico, corpi eterei, statuari, bellezza stereotipata in una forma che si voleva eterna, ma in ambienti tedeschi dell’attualità (cfr. ad es. i quadri di Ziegler; o i cortei annualmente tenuti a Norimberga, che avevano lo scopo di conciliare nella strada l’arte e il popolo e presentavano opere miste: statue greche affiancate all’aquila simbolo del nazismo; figuranti in carne ed ossa rivestiti di costumi antichi, armature, corazze vichinghe…). Il ritorno al passato era per Hitler attualizzazione assoluta e realizzazione mitica del genio unico ed eterno, astorico, della razza germanica. In ciò, si verificava un’abolizione totale della storicità, in base ad una concezione della storia non lineare e vicina, secondo Michaud, ad alcune affermazioni di Heidegger ne L’origine dell’opera d’arte, per cui la storia non è il passato trascorso di un popolo, ma il destino-compito che questo popolo si dà nella forma dell’evento, di cui l’arte è una forma originaria. L’arte era, per Hitler e Rosemberg, inestricabilmente legata alla razza. Essi sostenevano che l’arte di un popolo non poteva essere realmente compresa dagli altri popoli e che ciascun popolo aveva la propria (tranne gli ebrei). Secondo Michaud questa concezione dell’arte risponde ad una precisa concezione organicistica della cultura già proposta da molti intellettuali intorno alla prima guerra mondiale (ad esempio Oswald Spengler), per cui essa sarebbe come un corpo, un organismo che ubbidisce ad una logica di nascita, sviluppo e tramonto-fine. Ora, se Spengler e altri avevano diagnosticato pessimisticamente la fine del corpo occidentale, Hitler e i suoi, pur condividendo la posizione di base, proponevano però un’alternativa al declino, in base ad una proposta di recupero, riattualizzazione del passato (sempre possibile in base al legame ineluttabile del sangue razziale), in una nuova proclamazione della potenza del corpo e di un suo rafforzamento mediante la tecnologia e la connessa idea della guerra.
(27) György Lukàcs, Storia e coscienza di classe, Feltrinelli, Milano 1967 [ed. or. 1923].
(28) György Lukàcs, “Prefazione” a Id., Storia e coscienza di classe, cit. [ed. or. 1967].
(29) Gli interventi che negli anni ‘40 Lukàcs pubblicava sulla rivista «Das Wort» sono per gran parte raccolti nei volumi di Lukàcs  del 1948 e 1950. Gli scritti di Brecht più polemici contro Lukàcs saranno pubblicati solo negli anni ’50, a guerra finita, e sono tutti raccolti in Bertolt Brecht, Schriften zur Literatur und Kunst, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1967.
(30) Il paradosso sta nel fatto che il quadro dell’estetica catartica lukàcsiana includeva ad emblema la tarda produzione artistica brechtiana, ma escludeva naturalmente la teoria dello straniamento con la quale, evidentemente per Lukàcs, quella produzione aveva ben poco a che fare (cfr. György Lukàcs, Estetica, Einaudi, Torino 1970 [ed. or.1963], pp. 532-533, 833. L’ambiguità teorica del rapporto tra Brecht e Lukàcs, infine, trova tra l’altro riscontro in quella biografica, come risulta dal bel documentario di Andrea Christoph Schmidt Brecht und Moskau (1998), nel quale  c’è un’interessante intervista a Lukàcs che dichiara di aver incontrato Brecht nel 1939 (il periodo caldo della loro polemica pubblica) e di averlo scoperto concorde sul fatto che il loro scontro era in realtà motivato dall’intermediazione di molte voci e posizioni distorcenti. (Per approfondimenti sulla relazione Brecht-Lukàcs, cfr. il classico Paolo Chiarini, Brecht, Lukàcs e il realismo, Laterza, Bari 1970.) Importante è anche che nell’Estetica una delle figure recuperate positivamente ad esempio di un’arte naturalmente dialettica è quella di Ejzenštejn, il quale proprio negli anni ’40 scriveva una sua opera (probabilmente sconosciuta all’ungherese) intitolata La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2003, nella quale la Dialektik der Natur di Engels è molto presente. Cfr. anche, sul suo rapporto teorico con Lukàcs, Guido Oldrini György Lukàcs e i problemi del marxismo del Novecento, La città del sole, Napoli,  2009, pp. 415 ss., che mette in luce anche i limiti dell’estetica lukàcsiana rispetto alla cultura cinematografica del ‘900.
(31) Cfr. Maurice Merleau-Ponty, Les adventures de la dialectique, Gallimard, Paris 1955.
(32) Cfr. Jean Paul Sartre, Critique de la raison dialectique I, Gallimard, Paris 1960.
(33) Il riferimento fondamentale per il concetto di alienazione (Entfremdung) in Brecht è Karl Marx, Manoscitti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino [ed. or. 1844], che veniva pubblicato in Germania proprio nel 1932, cioè durante gli anni in cui Brecht frequentava le lezioni di Korsch sul marxismo. C’è da precisare inoltre che in Brecht v’è uno strano paradosso lessicale-concettuale. Se nella sua teoria matura l’Entfremdung doveva appunto essere lo stato di cose da negare mediante la Verfremdung, nel primo saggio del 1935, Effetti di straniamento nell’arte scenica cinese, cit., i due termini “Verfremdung” ed “Entfremdung” venivano utilizzati ancora come sinonimi per indicare lo straniamento (nel senso che sarà poi solo della Verfremdung di lì a poco).
(34) Testo riportato in AA. VV., Verfremdung in der Literatur, a cura di H. Helmers, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft,  1984, pp. 114-115 (tr. nostra).
(35) Cfr. Roland Barthes, Miti d'oggi, cit., p. XX.
(36) Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” e “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(37) Cfr. Bertolt Brecht, Mère Courage et ses enfants, con fotografie di Roger Pic,  L’Arche, Paris 1960 e Roger Pic, Brecht et le Berliner Ensemble à Paris, arte éditions, Marval,  1960.
(38) Cfr. Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio”, p. 226, c. n.
(39) Roland Barthes, “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(40) Ivi, p. 260.
(41) Ivi, p. 261.
(42) Cfr. Walter Benjamin, Versuche über Brecht, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966.
(43) Cfr. Bertolt Brecht, Scritti teatrali, cit. vol II, p. 58.
(44) Roland Barthes, La grana della voce, Einaudi, Torino 1986 [ed. or. 1981], p. 9.
(45) Cfr. Luis Althusser, Pour Marx, Maspero, Paris 1965.
(46) Cfr. Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” e “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(47) Cfr. Roland Barthes, Miti d'oggi, cit.
(48) Cfr. l’articolo del 1959 “Letteratura e metalinguaggio” in Roland Barthes, Saggi critici, cit.
(49) Cfr. Roland Barthes, Elementi di semiologia, Einaudi, Torino [ed. or. 1964].
(50) Ora in Roland Barthes, L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Torino 2001 [ed. or. 1982].
(51) Cfr. Roland Barthes, “Retorica dell’immagine”  [ed. or. 1964], in Id., L'ovvio e l'ottuso, cit.
(52) In Roland Barthes, Saggi critici, cit.
(53) Ivi, pp. 260-261.
(54) Cfr. Marco De Marinis, “«Ce mélange d’ennui et de fête». Roland Barthes e il teatro”, in «Il castello di Elsinore», n.4, 1989.
(55) Cfr. Roland Barthes, Saggi critici, cit., pp. 260ss.
(56) Cfr. ivi, pp. 204ss. e Roland Barthes, La grana della voce, Einaudi, Torino 1986 [ed. or. 1981], pp. 17ss.
(57) Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, Einaudi, Torino 2007 [ed. or. 1975].
(58) Roland Barthes, Saggi critici, cit., p. 213, c.n.
(59) Ivi, p. 260, c. n.
(60) Cfr. Roland Barthes, La grana della voce, cit., p. 65.
(61) In Roland Barthes, L’avventura semiologica, Einaudi, Torino 1985.
(62) Ivi, p. 115.
(63) Cfr. Ferdinand De Saussure, Corso di linguistica..., cit., pp. 145-148.
(64) Cfr. il paragrafo “Semantica della metafora” in Umberto Eco, Le forme del contenuto, Bompiani, Milano, 1971.
(65) Cfr. Jean Paul Sartre,  Critique de la raison..., cit.
(66) Cfr. Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” e “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(67) Cfr. Roland Barthes, La grana della voce, cit., p. 128.
(68) Cfr. Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio”, cit., p. 226, c. n.
(69) Cfr. Roger Pic, Brecht et le Berliner Ensemble à Paris, cit. e Roland Barthes, “Sette fotografie-modello di Madre Coraggio” e “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(70) Cfr. Roland Barthes, Saggi critici, cit., p. 176.
(71) Cfr. Roland Barthes, Sul teatro, cit., pp. 33-36.
(72) Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit., p. 200. Su questo terzo periodo sono scarsi i contributi critici solo sul brechtismo di Barthes ma non sulla sua idea di teatro. Per l’idea di teatro nell’ultimo Barthes, cfr. comunque i testi citati in bibliografia di De Marinis, Sarrazac e Consolini. Per il brechtismo nell’ultimo periodo, gli unici (scarni) studi di cui siamo a conoscenza sono i testi di Jäger e Tatlow.
(73) Cfr. Roland Barthes 1970, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984 [ed. or. 1970] p. 5.
(74) Entrambi in Roland Barthes, Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988 [ed. or. 1984].
(75) Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit. p. 166.
(76) Cfr. Roland Barthes, La grana della voce, cit., p. 312.
(77) Cfr. Roland Barthes, S/Z, Einaudi,  Torino,1973 [ed. or. 1970], p. 118.
(78) Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo [ed. or. 1973], ora in Id., Variazioni sulla scrittura seguite da Il piacere del testo, Torino, Einaudi 1999, pp. 16-17.
(79) Cfr. Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit., p. 328.
(80) Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit., p. 69.
(81) Ivi, 98.
(82) Roland Barthes, L’ancienne rhétorique, cit.
(83) Cfr. il testo del 1968 in Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit., p. 52.
(84) In Roland Barthes, Scritti, cit.
(85) Cfr. “La mitologia oggi” del 1971, in Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit. p. 66.
(86) Cfr. Roland Barthes, La grana della voce, cit., pp. 84-85 e 152.
(87) Per il rapporto di Barthes con Ejzenštejn, che è in qualche modo significativo anche per il nostro intento argomentativo perché nella rilettura barthesiana del regista russo si danno alcuni tratti in comune con la sua rilettura di Brecht, cfr. almeno Marie-Claire Ropars-Wuilleumier “Rileggere Ejzenštejn: il montaggio in espansione e la pensée du dehors”, in Pietro Montani (a cura di), Sergej Ejzenštejn. Oltre il cinema, Pordenone, La biblioteca dell’immagine, 1991. Per la presenza di Brecht negli ambienti intellettuali francesi dei ’70, cfr. i testi di Jäger e Tatlow citati in bibliografia.
(88) Un’idea propria anche di Edoardo Sanguineti, Avanguardia e neoavanguardia, Sugar, Milano 1966, p. 89, di Ferruccio Rossi Landi, Semiotica e ideologia. Applicazioni della teoria del linguaggio come lavoro e come mercato. Indagini sulla alienazione linguistica, Bompiani, Milano 1972, p. 104, di Julia Kristeva, La révolution du langage poétique, Seuil, Paris 1974, pp. 172ss. e Umberto  Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, § 3.7.
(89) Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo..., cit., p. 86.
(90) Cfr. Maurizio Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, AlboVersorio, Milano 2007.
(91) Umberto Eco, Le forme del contenuto, cit. e Id. (a cura di), Estetica e teoria dell’informazione, Bompiani, Milano, 1972.
(92) Cfr. Gianni Vattimo, Le avventure della differenza. Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger, Garzanti, Milano 1980 e Id., “Dialettica, differenza, pensiero debole”, in Il pensiero debole, a cura di Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 1983.
(93) Cfr. Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit., pp. 80-81.
(94) Cfr. Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit., p. 329.
(95) In Roland Barthes, L'ovvio e l'ottuso, cit.
(96) Da Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit. p. 81.
(97) Cfr. Roland Barthes, “Commento a Madre Courage e i suoi figli”, cit.
(98) In Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit.
(99) In Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit.
(100) In Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit.
(101) Roland Barthes, La grana della voce, cit., p. 128.
(102) Roland Barthes, L'impero dei segni, cit. p. 61.
(103) Ivi, pp. 56ss.
(104) Ivi, p. 107.
(105) Roland Barthes, Il brusio della lingua, cit., p. 227.
(106) Cfr. Ferruccio Rossi-Landi, Semiotica e ideologia..., cit., p. 104 e Umberto Eco, Estetica e teoria dell'informazione, cit., p. 186 n.
(107) Questa operazione di mutuazione e traduzione metodologica ed epistemologica, che va senz’altro incontro a grosse difficoltà data la differente natura di fenomeni e di strumenti a disposizione della semiotica da un lato e della sismologia vera e propria dall’altro, è stata oggetto di una prima elaborazione da parte nostra in un intervento tenuto durante il convegno Le performing arts e le nuove generazioni di studiosi, in data 26/06/2010 all’Università di Roma “La Sapienza” presso il Dipartimento di Arti e scienze dello spettacolo. Il saggio sarà pubblicato in primavera su «Biblioteca teatrale» con il titolo Quando il testo trema. Per una sismologia dello straniamento.
(108) Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit. p. 78.
(109) Un altro compito di cui la semiotica dovrebbe oggi farsi carico è quello di condurre delle analisi semiotiche sui testi classici dei propri fondatori, seguendo l’esempio del bel saggio di Gianfranco Marrone, “La luce del sud-ovest: abbozzo di un’amichevole analisi”, in AA. VV., Con Roland Barthes, alle sorgenti del senso, Meltemi, Roma 2006. Uno dei primi testi da affrontare sarebbe proprio Roland Barthes, Barthes di Roland Barthes, cit., e bisognerebbe farlo rintracciandovi innanzitutto il suo brechtismo inteso come fattore non di contenuto, ma strutturale.
(110) Cfr. Umberto Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979.
(111) Roland Barthes, “Lezione” [ed. or. 1978], in Sade, Fourier, Loyola seguito da Lezione, Torino, Einaudi, 2001, p. 178.
(112) Ivi, p. 180.
(113) Bertolt Brecht, Scritti teatrali, cit., vol. III: p. 230.
(114) Cfr. Peter Szondi, Teoria del dramma moderno, Einaudi Torino [ed. or. 1956].
(115) Cfr. Hans Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Frankfurt am Mein 1999.
(116) Heiner Müller, a lungo direttore del Berliner Ensemble dopo la morte di Brecht, drammaturgo e poeta, mise in scena molti drammi brechtiani; la sua opera drammatica è pubblicata in Italia da Ubulibri. Per un primo approccio critico cfr. almeno il numero monografico di «Biblioteca teatrale» intitolato Il teatro di Heiner Müller, a cura di Valentina Valentini, 41, gennaio-marzo, 1997.




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