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JUDITH MALINA IN MEMORIAM

 

[Cristina Valenti] Judith Malina è morta il 10 aprile scorso nella Lillian Booth Actors Home, la casa di riposo per attori anziani a Englewood, New Jersey, dove dimorava dal febbraio 2013. Avrebbe compiuto 89 anni nel giugno prossimo. Sessantotto anni fa, nel 1947, aveva fondato con Julian Beck il Living Theatre, il teatro che sarebbe diventato ben presto fucina di sperimentazione artistica e quartier generale dell’ambiente politico newyorkese, profondamente orientato in senso pacifista e libertario.
L’avvicinamento all’anarchismo avvenne attraverso le prime letture di Godwin e Proudhon, ma soprattutto attraverso la cerchia delle frequentazioni newyorkesi: Paul Goodman, Jackson Mac Low, la rivista “Why?”, gli anziani del Resistance Group reduci dalla guerra spagnola, le iniziative pacifiste dei War Resisters e del Catholic Warker di Dorothy Day… Un’adesione immediatamente pragmatica alla “razionalità dell’idea”, alla “sua semplicità e praticabilità insieme”, secondo le parole di Judith Malina. E lei, la regista del gruppo, formatasi alla scuola di Erwin Piscator, ha portato nel Living Theatre il sapere teatrale che ha consentito di tradurre gli ideali politici in pratica artistica, di sperimentare concretamente la visione anarchica verificandone i fondamenti nella prassi creativa, fuori e dentro la scena.
Quando si sono incontrati, Julian Beck era un brillante pittore della cerchia degli espressionisti astratti, aperto alle esperienze di sconfinamento e incontro fra le arti, convinto della necessità che il teatro dovesse portare a termine la rivoluzione che aveva sconvolto le altre arti, musica, pittura, scultura. Judith Malina, quaderni di regia alla mano, governava il “caos creativo” tanto caro a Julian Beck, mettendo la sua formazione teatrale al servizio di soluzioni tecniche, metodologiche e organizzative che rendessero praticabile l’utopia. Insieme e differentemente razionali e visionari, hanno dato vita alla più radicale esperienza di sovversione teatrale novecentesca, una compagnia che a metà degli anni Sessanta si è trasformata in collettivo teatrale, ovvero microcellula rivoluzionaria e avanguardia di sperimentazione concreta.

Per il Living Theatre Judith Malina ha firmato la regia di spettacoli che sono entrati nella storia del teatro, da The Brig (1963) a Mysteries and Smaller Pieces (1964), da Frankenstein (1966) ad Antigone (1967), e ha partecipato alle creazioni collettive di Paradise Now (1968) e del ciclo dell’Eredità di Caino, inaugurato nel 1970 e destinato alle strade, alle fabbriche, agli ospedali psichiatrici. Il “ritorno al teatro”, negli anni Ottanta, a partire da Prometheus (1978) e fino a The Archeology of Sleep (1983), ha dato vita a un nuovo impegno artistico, alla ricerca di un dialogo sempre più allargato con gli spettatori. Dopo la morte di Julian Beck, nel 1985, ha deciso di continuare con Hanon Reznikov (prematuramente scomparso nel maggio 2008), alternando gli interventi teatrali negli spazi aperti alla creazione di nuovi spettacoli per i teatri, fino all’apertura di un nuovo teatro, nel Lower East Side di New York, nel 2007. Affiancata dal nuovo direttore organizzativo, Brad Burgess, Judith è riuscita a sostenere una situazione economica estremamente precaria, fino alla crisi definitiva, che ha portato alla chiusura del teatro nel 2013, proprio quando il pubblico e la critica di New York riscoprivano “l’artista che aveva fatto scandalo in Europa negli anni Sessanta” (questo il profilo che le era attribuito) salutando con grande favore i suoi ultimi lavori, History of the World (2011) e Here We Are (2013), di cui aveva firmato i testi e la regia.

Ma quale scandalo ha accompagnato la vita di Judith Malina? Quello di un’artista che ha affrontato denunce e arresti in dodici paesi differenti, sempre a causa delle sue battaglie civili e pacifiste, per le quali ha dovuto anche scontare periodi di carcere negli Stati Uniti e in Brasile. Poi lo scandalo della nudità e dell’uso erotico del corpo, da Antigone a Paradise Now, spettacolo quest’ultimo che più di ogni altro è stato accompagnato in tutto il mondo da una fitta vicenda di sospensioni, interruzioni, divieti. E che è emblematico di un accanimento non spiegabile con il solo “oltraggio al pudore”. Nudità e sesso appartenevano infatti nel Living Theatre a un progetto di sovversione globale, che si saldava con la realtà in fermento di quegli anni raccogliendo “pericolosamente” migliaia di proseliti.  Nudità come liberazione del corpo, e liberazione sessuale come pratica non violenta e sperimentazione di relazioni non asservite ai paradigmi dominanti.
A rivedere le foto di Paradise Now e del Rito dei Rapporti Universali (riproposto dal Living anche al di fuori dello spettacolo), l’innocenza di quelle carni bianche, la schiena ricurva di Judith Malina, i seni allentati dalle gravidanze, la magrezza e la fragilità prive di glamour… tutto questo non può che suscitare tenerezza, oggi, quando l’uso del nudo equivale a narcisismo ed élitismo estetico. Eppure quei corpi inermi hanno avuto la forza di un’esplosione nel corpo della società.
La bellezza dei corpi del Living era cercata nella bellezza della nudità, non in corpi preparati o modificati per apparire nudi. Una bellezza che Judith Malina ha voluto mostrare fino a Maudie e Jane, lo spettacolo sulla vecchiaia realizzato nel 1994 per la Società Teatrale Alfieri di Asti, poi riproposto nella versione americana del 2007, nel quale interpretava la protagonista del romanzo di Doris Lessing, mostrando la nudità di un corpo anziano sulla scena. Un impegno a scardinare i pregiudizi sulla vecchiaia che già prefigurava in qualche modo il suo ultimo spettacolo, realizzato con gli anziani dell’Actors Home, The Triumph of Time (di cui Judith parla nella conversazione che proponiamo di seguito): un lavoro sul “diventare vecchi” che, “invece di trattare del dispiacere – che tutti conosciamo – tratta dei vantaggi dell’invecchiare, vantaggi che la società non riconosce. Infatti con l’età tutti noi diventiamo più saggi, migliori, più intelligenti, più compassionevoli”.

L’eredità del Living Theatre è difficile da cogliere, oggi, perché portatrice di uno scandalo mai “tollerato”, in quanto non recuperabile né assimilabile a prodotto di consumo, come osservava Pier Paolo Pasolini (che non a caso ha avuto una forte vicinanza anche artistica con il Living Theatre). Ripensando a queste immagini, al potere deflagrante dei corpi inermi e gioiosi del Living Theatre, comprendiamo il dialogo che Judith Malina ha intessuto negli ultimi anni con i Motus e con Silvia Calderoni che, in The Plot is the Revolution, lo spettacolo omaggio che la compagnia le ha dedicato, riceve dalla voce dell’anziana attrice un’eredità che fa rivivere nel suo corpo sottile e potente, ritrovando la sfida di una nudità innocente e deflagrante, come l’esperienza di cui raccoglie il testimone in nome di Antigone. Un’eredità vivente che abbiamo voluto testimoniare nelle immagini qui pubblicate, ben sapendo quanto Judith fosse insofferente del passato e delle sue continue riesumazioni, preferendo porre al centro l’imperativo del presente. Quel NOW affermato con forza nello spettacolo simbolo del Sessantotto teatrale, che ritorna nell’ultimo lavoro italiano con i Motus, inciso sulla scena come monito all’azione, perché, diceva Judith nel suo dialogo con Silvia, “Il passato è una menzogna storica. Il futuro è un sogno. La realtà è adesso!”.

 

 

L’ultima conversazione con Judith Malina*

Il 10 luglio 2013 Judith Malina è andata in scena a Bologna, al Giardino per la Memoria di Ustica, insieme a Silvia Calderoni, in The Plot is the Revolution, spettacolo dei Motus, diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò.
In quell’occasione ha visitato il Museo per la Memoria di Ustica, accompagnata da Daria Bonfietti [Presidente dell'Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica].
È stato il suo ultimo viaggio in Italia, reso possibile grazie all’invito dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, che ha ospitato lo spettacolo nell’ambito della rassegna “Dei Teatri, Della Memoria” diretta da chi scrive.
Quella che segue è la mia conversazione con Judith Malina, realizzata l’8 luglio 2013.

 

 

Bologna, Giardino per la Memoria di Ustica, 8 luglio 2013

 


Cristina Valenti Dopo sei anni dall’inaugurazione, alla fine di febbraio scorso il Living Theatre ha dovuto lasciare il teatro nel Lower East Side a New York. Come è andata?
Judith Malina
Per me è stata una tragedia dover chiudere il nostro meraviglioso teatro in Clinton Street. Lo amavo moltissimo. Adesso non ho più un teatro, a meno di affittarne uno. Il solo problema è il denaro, come sempre, come per tutti. Abbiamo tentato strenuamente di raccogliere fondi. Sono gravemente indebitata, e per questo vivo nell’Actors Home, che apprezzo, ma io odio vivere in una casa di riposo. Voglio vivere in una comunità creativa. Quella è una comunità molto buona, e io sto facendo un buon lavoro con loro… ma spero ancora di uscire e sto cercando il modo.

CV Come pensi che il Living Theatre possa continuare il suo lavoro?
JM Sto lavorando su due testi. Un testo per il Living Theatre e uno per l’Actors Home. Sto procedendo parallelamente con entrambi. Il primo si intitola No Place to Hide, che è una situazione nella quale ci troviamo tutti. Tutti noi siamo alla ricerca di un luogo in cui nasconderci, chi si nasconde dalla finanza, chi dalla polizia, chi da suo marito, o da sua moglie o da sua madre, o da se stesso, e costruisce una barriera fra sé e le altre persone, ma tutti si nascondono. E in questo spettacolo c’è la speranza che possiamo trovare noi stessi.
Per le persone dell’Actors Home sto lavorando a un testo dal titolo The Triumph of Time, che parla del diventare vecchi, ma invece di trattare del dispiacere – che tutti conosciamo – tratta dei vantaggi dell’invecchiare, vantaggi che la società non riconosce. Infatti con l’età tutti noi diventiamo più saggi, migliori, più intelligenti, più compassionevoli. Vorrei fare il confronto con il fatto che una persona di cinque anni è molto diversa da una di dieci, lo sappiamo tutti, e una persona di dieci anni è molto diversa da un quindicenne, e un quindicenne è molto diverso da un ventenne. Ma quello che non sappiamo, e che la società non riconosce, è che un settantacinquenne non è così intelligente e sviluppato come un ottantenne, o che un ottantacinquenne è andato oltre un ottantenne. E io so, per quanto mi riguarda, che sono più intelligente oggi, a 87 anni, di quanto non fossi a 80. Questo cambiamento non è riconosciuto dalla società. Quello che siamo tutti noi anziani, è una risorsa che non è usata, che la società non usa. Infatti gli anziani sono scoraggiati a credere in se stessi, e la società spreca una grande risorsa. Perché, quando dico che diventiamo più intelligenti, non intendo dire che riusciamo a conoscere la data della nostra morte, intendo dire che diventiamo più compassionevoli e più in grado di comprendere cosa ciò significhi, più capaci di riconoscere le relazioni umane per quello che sono realmente… In America gli anziani sono messi da parte e dimenticati perché si pensa che non conoscano nulla, non possano fare nulla, e ciò non è vero, e noi perdiamo la grande risorsa della saggezza delle persone anziane. Così io voglio fare uno spettacolo nel quale gli anziani con i quali vivo parlino della loro esperienza dell’invecchiare, non del fatto che non camminano più tanto bene, o non leggono, non sentono o non vedono più tanto bene, ma che hanno altri vantaggi, che compensano abbondantemente tutti questi svantaggi. Un lavoro ottimistico sull’invecchiare. The Triumph of Time.

CV E cosa pensi dell’invecchiamento del Living Theatre come compagnia? Cosa significa per una compagnia avere 65 anni?
JM Credo che anche noi siamo diventati più saggi e migliori. Penso agli ultimi due lavori, in cui abbiamo integrato gli spettatori più attivamente. Noi abbiamo sempre sperimentato con la partecipazione degli spettatori, chiamando dentro qualcuno… ma negli ultimi due lavori non ci sono posti a sedere, il pubblico entra ed è immediatamente parte del lavoro. Lo spettacolo è lo spettacolo del pubblico. Noi presentiamo l’argomento, le idee che vogliamo esplorare, si tratti di The History of the World o di Here We Are e quindi integriamo il pubblico nella nostra azione. Credo che si tratti di un passo ulteriore. Un passo del quale il mio maestro Piscator parlava sempre, ma che aveva delle resistenze ad attuare. Era sempre un po’ timoroso del pubblico, e non fece mai quel passo: l’ha lasciato ai suoi allievi. Così io sto cercando di tenere alta la bandiera che stava portando avanti, e andare verso la vera partecipazione del pubblico, non solo nel senso di ballare assieme, ma di creare realmente lo spettacolo insieme.

CV Sei venuta qui a Bologna, a presentare il tuo spettacolo con i Motus nel Giardino per la Memoria di Ustica. Cos’è la memoria per te?
JM Io sostengo certamente il lavoro coraggioso delle persone che lavorano [l’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica]. Sono una vera pacifista e penso che la sola soluzione è rifiutare ogni violenza, ogni arma, ogni esercito, ogni polizia, ogni prigione. Una visione molto radicale di un cambiamento sociale, ma un cambiamento sociale non violento. Ed è importante per me, quando ricordiamo gli abusi, gli orrori, come nel caso dell’abbattimento di questo aereo e dell’uccisione di tante persone innocenti, quando pensiamo a questi abusi, non dobbiamo pensare semplicemente al prossimo passo da fare, ma a un passo più ampio, a come cambiare il nostro modo di risolvere i problemi sociali in modo non violento.
Dovremmo essere capaci di fermare l’uso della violenza tutti assieme. Noi sappiamo che la violenza è sempre sbagliata e possediamo tutti gli argomenti contro di essa… Ma pensare che quelle persone sono state abbattute con l’aeroplano non aiuta, se non siamo in grado di comprendere realmente cosa è successo, e fare quindi il passo più radicale nella direzione del pacifismo e della non violenza.

 

CV La memoria dell’Olocausto è una parte importante della tua vita…
JM Quando parliamo dell’Olocausto, la prima cosa che viene fuori è la vendetta e l’odio. E questo è male. Così per me ricordare l’Olocausto è quasi sempre male, è quasi sempre negativo per il raggiungimento del fine pacifista che tutti vorremmo vedere. Tutti vorremmo vivere in un mondo non violento, non solo i pacifisti. Ma in genere le persone pensano che non sia possibile. E l’esperienza dell’Olocausto porta a dire: vedete, è impossibile, perché che cosa si poteva fare con i Nazisti? E ovviamente la risposta è: disarmarli, disarmare tutti, nessuno deve avere un’arma, non c’è bisogno di armi.
Penso che la memoria dell’Olocausto sia molto usata per instillare odio e vendetta. L’ho compreso fin da bambina, appena sono diventata pacifista, e sono andata da mio padre che lavorava per far capire agli Americani quello che stava succedendo agli Ebrei in Germania, e ho detto: Papà ho scoperto che la cosa più importante è che non dobbiamo odiare i Nazisti… Cosa??? Aspetta un minuto!!! E ho avuto problemi da quel giorno fino a oggi. Sono stata arrestata in dodici Paesi differenti, e sono stata anche incarcerata, solo perché credevo in questo, non perché ho commesso dei crimini, ma perché ho detto che non dovremmo mai usare l’odio. La causa dell’Olocausto finisce per alimentare l’odio. La mia famiglia è stata sterminata in un campo di concentramento, so cosa significa, ma per combattere la violenza non bisogna alimentarla con l’odio, con la violenza, con la vendetta.

 

 

* La conversazione è pubblicata integralmente nella rivista on line www.ateatro.it (n. 153, 20/04/2015), che ringraziamo per la concessione.


Crediti fotografici: Judith Malina in The Plot is The Revolution, Bologna, Giardino per la Memoria di Ustica, 10 luglio 2013. Spettacolo di Motus, regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, con Silvia Calderoni e Judith Malina. Foto di Tomaso Mario Bolis.

 
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