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LUCA RONCONI IN MEMORIAM

di Claudio Longhi

 

Con la sobria discrezione e il riserbo che lo hanno caratterizzato per tutta la vita, lo scorso sabato 21 febbraio, Luca Ronconi ci ha lasciato.
Era nato a Susa, in Tunisia, l’8 marzo 1933: tra qualche giorno avrebbe compiuto ottantadue anni. Ottantadue anni folli, frenetici, visionari, spesi, per lo più, e soprattutto fino all’ultimo, in palcoscenico, pardon: in teatro – perché spesso il palcoscenico gli andava un po’ stretto…
All’inizio qualche incertezza. Dopo il folgorante passaggio all’Accademia Silvio d’Amico – diplomato in soli due anni contro i tre richiesti dal cursus studiorum –, una brillante stagione da attore sotto la guida di grandi nomi – da Squarzina a Orazio Costa, da De Lullo ad Antonioni. Molti i consensi per il giovane timido – che, al suo esordio professionale, sul finale di Tre quarti di luna (1953), nelle vesti di Mauro Bartoli, proprio diretto da Squarzina, pugnalava il preside Piana interpretato da Vittorio Gassman –, ma, a fronte dei tributi di stima, una sorda insofferenza, un disagio profondo, un rifiuto di certi meccanismi teatrali avvertiti come asfittici. Poi qualche rapida sortita nel campo della drammaturgia, rimasta, però, allo stadio di esperimento. Quindi una prima falsa partenza da regista: correva l’anno 1963 e Luca dirige per la compagnia Gravina-Occhini-Pani-Ronconi-Volonté La buona moglie – silloge di due commedie goldoniane: La putta onorata e La buona moglie –, spettacolo amaro e cupissimo, scomodo e violento, che prende bruscamente le distanze dalle trinoline e dai nèi settecenteschi, così come dall’arioso realismo alla Morandi della Locandiera di Visconti. Un fiasco clamoroso: così inappellabile da tenere Ronconi lontano dalle scene per quasi due anni. Infine, dopo un ennesimo tentativo – la regia del Nemico di se stesso ad Ostia antica nel luglio del ’65 –, l’incontro con la propria stella. Nell’estate del 1966, al Palazzo Ducale di Urbino, debuttano I Lunatici; per la (buona) società teatrale dei ruggenti anni Sessanta è uno shock, questa volta, però, salutare. Dal Goldoni noir di inizio decennio, i tempi sono cambiati. Di fronte al contorto gesticolare degli attori, alla cacofonica spezzatura della loro dizione, metafore dell’umana follia, si scomoda Artaud e il suo “teatro della crudeltà” e Ronconi è subito salutato come il nuovo enfant terrible del nostro teatro.

In bilico tra tradizione e novità – il regista lavora con la commercialissima ditta Fantoni&Fortunato, ma firma altresì il bellicoso proclama per un “Nuovo Teatro” lanciato da Franco Quadri sulle pagine di «Sipario» (1966) –, con la celeberrima messa in scena elisabettiana inizia per Luca una rapidissima e ormai irresistibile ascesa al successo. La consacrazione a figura di primo piano della scena internazionale arriva infatti dopo soli tre anni nel 1969 con il leggendario Orlando furioso, travestimento teatrale dell’omonimo poema d’Ariosto, firmato da Edoardo Sanguineti, debuttato a Spoleto il 4 luglio e presto volato al Bitef di Belgrado e alle Halles di Parigi. In un immaginifico e simultaneo carosello di invenzioni, la rappresentazione esorbita dal palcoscenico e invade ogni spazio: chiese, piazze, palazzetti dello sport, gallerie d’arte… ovunque Orlando furioso accende polemiche e scatena entusiasmi. L’environmental theatre teorizzato da Schechner è ormai un dato di fatto.
Impossibile rendere conto in dettaglio della produzione registica di Ronconi successiva all’Orlando: nove lustri di spettacoli attraversati al galoppo, lavorando a ritmi convulsi – dapprima come regista free lance, quindi a capo di prestigiose istituzioni pubbliche (la Biennale di Venezia, 1974-1977; il Laboratorio di Progettazione Teatrale di Prato, 1976-1979; il Teatro Stabile di Torino, 1989-1994; il Teatro di Roma, 1994-1998 e infine il Piccolo Teatro di Milano, 1999-2015) –, animato da una fame di drammaturgie così onnivora da far impallidire Gargantua e da un’attenzione maniacale, sempre velata di ironia, per la singolarità irripetibile un po’ à la manière de Jarry (d’altronde proprio il patafisico Franco Quadri era stato forse il suo più intelligente estimatore e sodale). Tralasciando, perché impraticabile in queste svelte note, la via del catalogo esaustivo, si può, però, tentare di schizzare, a grandi linee, il profilo delle aree privilegiate di interesse del regista. Il teatro antico, dal precoce capolavoro dell’Orestea di Belgrado (1972) al trittico di messe in scena viennesi (Die Bakchen, 1973; Die Vögel, 1975; Die Orestie, 1976), e poi giù giù dalle Baccanti di Prato monologate da Marisa Fabbri (1978), al Pluto di Epidauro (1985), o alla Medea con Franco Branciaroli (1996). La scena elisabettiana, battuta sistematicamente sia sul versante shakespeariano (Misura per misura, 1967 e 1992; Riccardo III, 1968; Re Lear, 1995; Sogno di una notte di mezza estate, 2008), sia sul versante dei comprimari (La tragedia del vendicatore di Tourner, 1970; Una partita a scacchi di Thomas Middleton, 1973; Peccato fosse puttana di John Ford, 2003). Il tesoro nascosto da secoli del teatro di Giovan Battista Andreini, paradossale recupero tutto letterario di una tradizione dell’Arte che non riscuoteva certo, per lo meno nella sua versione vulgata, le sue simpatie (La Centaura, 1972 e 2004; Amor nello specchio, 1987 e 2002; Le due commedie in commedia, 1984). La pista algida e fascinosa dei testi della Mitteleuropa (Al pappagallo verde, 1978; La commedia della seduzione, 1985; L’uomo difficile, 1990; Il professor Bernhardi, 2005; Inventato di sana pianta, ovvero Gli affari del barone Laborde, 2007). Le scritture equivoche della crisi del dramma borghese, con una netta predilezione per le opere di Ibsen (L’anitra selvatica, 1977; Spettri, 1982; verso «Peer Gynt», esercizi per gli attori, 1995; Nora alla prova da Casa di Bambola, 2010) e Strindberg (Il sogno, 1983 e 2000; Danza macabra, 2014), ma anche con tardive – e illuminanti – aperture sui drammi di Cechov (Laboratorio per Un altro gabbiano, 2009) e Pirandello (Die Reisen vom Berge, 1994; Questa sera si recita a soggetto, 1998; In cerca d’autore. Studio sui «Sei personaggi», 2012). I capricci teatrali ispanici con il loro sensuale turgore barocco o protobarocco (La vita è sogno, 2000 e Celestina, laggiù vicino alle concerie in riva al fiume, 2014). La sfida irresistibile delle drammaturgie non drammatiche inventate sul filo della ricognizione delle pagine romanzesche (Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1996; Memorie di una cameriera, 1996; Quel che sapeva Maisie, 2002; Pornografia, 2013) o della frequentazione dei mondi, pressoché sconosciuti, delle scienze esatte o sociali (Infinities, 2002; Biblioetica, dizionario per l’uso, 2006; Lo specchio del diavolo, 2006). Non mancano poi azzardi sui copioni del tempo presente (il Calderón di Pasolini, 1978 e 1993; il contestatissimo Davila Roa di Alessandro Baricco, 1997; Itaca di Botho Strauss, 2007; La modestia e Il panico di Rafael Spregelburd, rispettivamente 2011 e 2013) e abbandoni spiazzanti, per lui uomo di sinistra, fermamente laico, a larghi religiosi, di insondabile profondità metafisica e al tempo stesso di aspra problematicità spirituale sospesa tra fede e ateismo nichilista (I dialoghi delle carmelitane, 1988; I fratelli Karamazov, 1998). Sempre e comunque, anche quando compresso sul microscopico palcoscenico di certi teatrini umbri, un teatro grande, labirintico nella sua straordinaria complessità, esploso fino a travolgere e ad annegare lo spettatore. Un teatro che per molti resta consegnato all’immagine della gran macchina barocca, costruito su di una bruciante vocazione al kolossal. Nella «selva selvaggia» delle proposte ronconiane ecco così delinearsi una possibile “strada maestra” inaugurata dal luna park dell’Orlando e poi proseguita sui barconi della Kätchen von Heilbronn galleggiante sul lago di Zurigo (1972), con l’arcano monolite dell’Orestea di Belgrado, con la processione parodica di Utopia (1975), con il “passaggio” dionisiaco delle Baccanti pratesi, con il “monumentum aere perennius” di Ignorabimus (1986), con l’agghiacciante campo di battaglia de Gli ultimi giorni dell’umanità (1990), con il caleidoscopico film teatrale di Lolita (2001), con lo sterminato Infinities a metà strada tra la “biblioteca di Babele” e il planetario, con l’ambiziosa trilogia spuria di Siracusa (Prometeo incatenato, Le baccanti, Le rane, 2002), con la megalomania globalizzata del Progetto domani (2006), paradossale fantascienza straniata nel senno di poi, fino all’ultimo sforzo: il colosso miniaturizzato della Lehman Trilogy (2015). E a margine di questo vasto e operoso opificio, diviso tra vitale recupero del passato e alacre costruzione del futuro secondo traiettorie non comuni sulla scena italiana – in apparenza fatalmente votata a sdoppiarsi in un’intima e irriducibile dialettica tra “teatro di tradizione” e “nuovo teatro” –, dai tardi anni Sessanta in avanti si sviluppa una fiorente scuola d’attori, perché a suo modo Luca, come i grandi “padri fondatori” dell’art de la mise en scène è a tutti gli effetti un regista pedagogo: lui stesso, implicitamente, lo riconosceva, tra le pieghe del suo britannico understatement, nella lectio magistralis pronunciata a Bologna in occasione del conferimento della laurea ad honorem in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo nel 1999. Messa in scena dopo messa in scena, generazioni di attori, da Marisa Fabbri a Mariangela Melato o a Franco Branciaroli, da Franca Nuti a Massimo De Francovich o ad Annamaria Guarnieri, da Paolo Pierobon a Maria Paiato o a Fausto Russo Alesi, talvolta in un gioco di mutuo e fecondissimo scambio, talaltra in un solerte apprendistato, hanno affinato nel lavoro con Luca i loro mezzi espressivi, così come generazioni di attori, da Gabriella Zamparini a Mauro Avogadro o a Riccardo Bini, da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Manuela Mandracchia a Raffaele Esposito o a Simone Toni, si sono formati proprio sotto la sua guida.
La passione dominante di Ronconi per il cosiddetto teatro di prosa, ammesso e non concesso che un teatro di prosa, esclusivamente come tale, esita, non ci deve, naturalmente, far dimenticare i suoi amori “ancillari”, ma non per questo meno accesi, per il teatro musicale, anche qui con evidenti e pronunciati centri di interesse. L’agile melodramma rossiniano, oggetto di una lunghissima frequentazione che potrebbe essere ricapitolata nella spumeggiante messa in scena del Viaggio a Reims di Pesaro (1984), ma anche l’imponente Wort-Ton-Drama di Richard Wagner, valga per tutti la menzione della tetralogia del Teatro Comunale di Firenze, diretta da Zubin Metha e firmata per l’appunto da Ronconi (L’oro del Reno, 1979; La Valchiria, 1980; Sigfrido, 1981; Il crepuscolo degli dei, 1981). La concettosa e adorata opera barocca da Monteverdi (Orfeo, 1998; L’incoronazione di Poppea, 2000) a Handel (Giulio Cesare in Egitto, 2002) e i sofisticati prodotti della drammaturgia per musica contemporanea da Janaceck (Il caso Makropulos, 1993) a Luigi Nono (Intollerance. 1960, 2011), Globokar (Traumdeutung, 1969) e Stockhausen (Samstag aus Licht, 1984). Né si possono poi passare sotto silenzio gli esperimenti di teatro televisivo. Mai veramente tentato dal cinema – «in nessun caso potrei girare un film», era solito ripetere, «il volto umano mi ripugna» – sul filo di una manciata di versioni televisive di spettacoli teatrali (nati o reinventati per il piccolo schermo) Ronconi detta un’inedita e sorprendente grammatica delle riprese video. Difficile dimenticare, per chi se ne sia nutrito anche una sola volta, le sterminate e ipnotiche carrellate del Borkman (1982) del secondo canale o dell’Orlando furioso versione TV (1975).
«In oltre trent’anni di attività», scriveva Luca nel 1999, «mi è capitato in più di una circostanza di dichiarare di non essere un ‘regista teorico’: come spesso mi sono trovato ad osservare il mio lavoro non nasce dall’applicazione di una ‘teoria’ e nemmeno amo teorizzare ‘a posteriori’ su di esso o sul teatro – ho come l’impressione infatti che se lo facessi non sarei più in grado di cimentarmi liberamente in quell’operazione sempre nuova che è la messa in scena di un testo». Eppure, a dispetto delle sue proteste di estraneità a qualsivoglia teorizzazione nel solco di un culto tutto goethiano per la «delicata empiria», con le sue messe in scena – mai banali, anche quando meno felici – Ronconi ha vergato pagine lucidissime e di rara efficacia, su regole e possibilità del teatro e del teatrabile. Orlando furioso, Orestea, Baccanti, Ignorabimus, Re Lear, il dittico Pasticciaccio-Infinities – per non allegare che qualche esempio tra i molti che si potrebbero evocare –, sono altrettanti memorabili capitoli di un tractatus teatrologico, ad un tempo di compiuta organicità e assolutamente fortuito, rispettivamente dedicati ad una nuova mappatura della drammaturgia dello spazio, alla ricodificazione della recitazione secondo le prospettive della linguistica generale, alla ridefinizione dello statuto del personaggio, alla critica alla nozione di naturalismo, alla icastica illustrazione di un’ermeneutica teatrale irriverente, pronta a laureare il lettore quale solo vero autore di ogni opera, allo sviluppo di una nuova grammatica di scrittura per la scena fondata sul superamento del modello epico e sulla teatragona convinzione che tutto possa essere oggetto di rappresentazione teatrale, forse ancora lontana dall’approdo postdrammatico in senso stretto, ma sicuramente tentata dall’evasione dalla “prigionia” del dramma secondo le eccentriche e fertilissime tangenti creative della potenzialità e del virtuale. Ne esce una Poetica, vitale e composita, di chiara matrice strutturalista, la cui chiave di volta, etica, epistemica e gnoseologica, è da ravvisarsi nell’aureo precetto secondo il quale «la più genuina essenza del teatro» sarebbe «quella di essere luogo deputato al maturarsi di una conoscenza complessa mediata dal concreto farsi di un’esperienza»; una Poetica, affine, per larghi tratti, al ductus di Sanguineti, ma vicina ad un tempo ai vaticini di Calvino: Leggerezza, Rapidità – sì rapidità a dispetto delle sue oceaniche lentezze – Esattezza, Visibilità, Molteplicità potrebbero essere, in fondo, anche le proposte di Luca per il teatro del prossimo millennio.
Ieri sera Ronconi ci ha lasciato e oggi le televisioni trasmettono ad intermittenza sequenze dei suoi spettacoli: Angelica-Ottavia Piccolo che fugge per le stanze di Palazzo Farnese a Caprarola montata sul magnifico destriero progettato per lei da Pier Luigi Pizzi, Branciaroli-Humbert-Humbert morbosamente intento a vagheggiare le sue Lolite-Galatea Ranzi/Elif Mangold sul set disegnato da Margherita Palli… Davanti a questi diafani simulacri di una vita che non c’è più, vengono alla mente, con uno strazio indicibile, le parole pronunciate da Ronconi a Venezia nell’ambito della manifestazioni per il conferimento del Leon d’Oro alla Carriera alla Biennale del 2012: «Il bello del teatro», il suo «grande vantaggio», «è che il giorno dopo non c’è più». Oggi Luca non c’è più, e a ripensarlo adesso il suo mirabolante teatro costruito sulle fondamenta mobilissime di un impalpabile niente, sembra un kantoriano monumento alla morte – riflessa sardonicamente, spettacolo dopo spettacolo, in allegorie impenetrabili degne di Magritte: valgano per tutte le porte enigmatiche, spalancate sul nulla, disseminate nel Candelaio del 2001, così come in Celestina. E forse, questo inestinguibile cupio dissolvi tatuato nella carne stessa della sua regia, rende finalmente ragione di una certa evasività del maestro, sul fronte dell’impegno, così tipica della sua cifra espressiva; di un certo distacco, quasi al limite del cinismo, strisciante in ogni sua messa in scena.
Certo il teatro di Ronconi non c’è più – niente sarebbe infatti più lontano dalla sensibilità, nervosa e sempre sfuggente del regista, di qualsivoglia tentativo di congelare l’attimo consegnandolo alla gloria del Museo –, ma resta, invece, vitalissimo il suo insegnamento. L’insegnamento di un amore unico, totale e incondizionato per il teatro; l’insegnamento di un coraggio artistico, quasi al limite dell’incoscienza, incapace di vacillare anche davanti alle sfide più impossibili; l’insegnamento di una curiosità che non si appaga di nessuna risposta, di una fantasia di bambino mai cresciuto che non vuole e non sa rinunciare a nessun sogno, di una libertà estetica che non ammette divieti, nemmeno quelli delle leggi della fisica.
Ripensandolo ora, quel suo mirabolante teatro impastato di ghiaccio e di fuoco, di terra e di aria secondo rigorose geometrie frattali, renitenti ad ogni chiusura, sorge spontaneo un pensiero semplicissimo: «Grazie, Luca, per tutto quello che hai immaginato e per le vie che, con quelle immagini, continuerai sempre ad additarci».

 


Bologna, 22 febbraio 2015

 
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