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Focus on
CONVERSANDO CON PIPPO DELBONO

di Antonino Pirillo

ANTONINO PIRILLO: Chi sono le persone che stanno in scena? Si possono ancora oggi chiamare attori? O performer, attanti, figure?

PIPPO DELBONO: Credo che in questi anni ci sia stata una rivoluzione importante nell’arte di cui ancora non ci si è resi conto. Non si sono resi conto soprattutto coloro che questo teatro dovrebbero programmarlo, comprarlo e scriverne. In effetti ci sono stati dei cambiamenti inevitabili che hanno modificato il senso della rappresentazione. Il teatro è un territorio che rimane però sempre più indietro rispetto a tutte le altre arti, se pensiamo alla musica contemporanea la quale è stata protagonista di grandi movimenti di innovazione; al cubismo per che ha trasformato un modo di vedere. Il teatro invece non ha grandi movimenti innovativi e in teatro trasformazione vuol dire trasformazione di tutte le sue componenti. Come lo trasformi il teatro? Come il cubismo la trasformazione sta nella composizione, invece il teatro rimane in alcuni suoi elementi assolutamente vecchio: le scuole, la formazione, l’impostazione, il rapporto con il corpo, , cosa si insegna a scuola, cioè si fa un po’ di corpo, un po’ di mimo, un po’ di danza, un po’ di studio del testo, un po’ di psicodramma. E in effetti non sì è mai contaminato di tutti quegli elementi che poi sono stati fondamentali in questo secolo, la danza, il teatro danza di Pina Baush. Io mi considero figlio di quell’innovazione anche se in effetti non c’è un movimento in cui questa danza sia entrata influenzandone il linguaggio, l’immagine: c’è la musica, c’è tutto quello che avrebbe dovuto contaminare la rappresentazione.

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In memoria di Zygmunt Molik

(4 aprile 1930, Cracovia - 6 giugno 2010, Wrocław)
di Giuliano Campo

Vorrei ricordare Zygmunt Molik per quello che era, e non soltanto per quello che ha fatto nella sua lunga vita nell’arte. Zygmunt per alcuni è stato un amico, semplice ma dai gusti raffinati, un bon viveur amante della vita, che lui conosceva bene e che ha vissuto intensamente, un compagno con cui passare le serate in allegria, con cui apprezzare e condividere il meglio che il proprio tempo ha offerto. Per molti altri Molik è stato un maestro di teatro. Per tanti altri di più, una presenza la cui apparizione ha avuto del miracoloso, un incontro che ha cambiato la vita. Parlo di vita, di vite, giacché di questo Zygmunt si è sempre occupato. Per Molik il lavoro era la vita, la vita il lavoro, e il lavoro era il lavoro sulla voce e il corpo dei suoi allievi. Per come l’ho conosciuto io, per come voleva essere ricordato, era un insegnante-curatore, uno sciamano europeo. Non gli farò torto scrivendo qui soprattutto di questo, del suo lavoro, come pedagogo in particolare, nel teatro e oltre. “Vita” è una parola d’uso comune che però include parecchi significati. Da quando ho iniziato il mio percorso con Molik, alcuni anni fa, ho dovuto sforzarmi di comprenderne il senso. D’altronde, il senso della vita non può essere espresso a parole, e così il lavoro di Molik con la “Vita” degli allievi. Questo è il motivo per cui lui raramente dava spiegazioni oltre il livello base della tecnica, che in genere era la ripetizione esatta delle figure dell’ “Alfabeto Corporeo” (Body Alphabet), da lui creato nel corso degli anni, come evoluzione del suo ruolo di guida della voce all’interno del Teatr Laboratorium, la compagnia diretta da Jerzy Grotowski che ha contribuito a fondare a Opole nel 1959, assieme a Ludwik Flaszen, Antoni Jaholkowski e Rena Mirecka. Tutto il resto del lavoro, il riconoscimento e l’utilizzo della “Vita”, era a carico dell’allievo, e lo strumento principale per la sua riscoperta, era il silenzio.

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Sotigui Kouyaté, l’attore trasparente

di Rosaria Ruffini

Si possono passare anni a cercare di definire cosa sia «l’attore trasparente» di cui parla Peter Brook, ma basta un attimo per coglierne l’essenza guardando la lunga silhouette di Sotigui Kouyaté attraversare la scena. Come uno schiaffo zen che rivela lucidamente la realtà, così la presenza di Kouyaté svela l’enigma di Brook. I critici erano turbati dall’assoluta sovrapponibilità tra l’attore e i personaggi, che incarnava con una naturalezza che i meno avveduti scambiavano per ingenuità e naiveté. Ma certo non era un dilettante Kouyaté, attore di punta, collaboratore e amico fraterno di Peter Brook.

Nato in una famiglia di cantastorie tradizionali, Kouyaté cresce accompagnando la madre cantastorie che si esibisce nei polverosi villaggi di un’Africa ancora colonizzata dalla Francia. Diventa ben presto musicista e cantore, non mancando di tracciarsi un percorso di formazione del tutto eclettico: diploma di farmacista, capitano della nazionale di calcio della Burkina Faso, dattilografo, Kouyaté era un uomo dai mille volti, curioso, ironico e colto.
Arriva in Europa all’età di cinquant’anni, chiamato da Peter Brook per partecipare al maestoso progetto del Mahabharata. A Brook basta uno sguardo per capire di aver trovato l’attore che cerca: Kouyaté è l’incarnazione perfetta del suo ideale. «L’arte di Sotigui è raffinata, tanto raffinata da essere impercettibile. Guardandolo in scena, l’artificio scompare e il diaframma tra la vita e l’arte è superato perché nel suo teatro non esiste finzione, al contrario c’è l’eco di una verità più profonda», afferma il regista.

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GLI SPIRITI DEL TEMPO
Gli ultimi mesi hanno visto la scomparsa silenziosa e discreta, senza troppi rumori di stampa e di critica, di tre straordinari attori, creatori e artisti del secondo Novecento, da includere indubbiamente nella rosa dei maggiori rappresentanti del Novecento Teatrale:
Sotigui Kouayté
, Zygmunt Molik, Torgeir Wethal


“Culture Teatrali” ha deciso di dedicare loro uno spazio necessario ed esclusivo per incastonare con speciali ritratti ad opera di fedelissimi militanti nel pensiero e nella pratica materiale il loro irripetibile sapere e fare teatrale.
 
Addio a Torgeir Wethal, attore emblema di un'epoca
di Massimo Marino
È un po’ come una vecchia zia che tutti stimano ma che tutti dimenticano, non ricordandosi neppure se ora vive con qualcuno di famiglia o con una badante. Il teatro, intendo. Molti lo dicono importante per la “vita culturale”, per l’identità, ma pochi ci vanno (e meno ancora con interesse reale), tutti lo dimenticano. Si conosconosoli  pochi nomi, dei quali si è visto a malapena un’opera, perché qualcuno le ha definite “trendy”.
Un nome che sembrava entrato nella mitologia del novecento, oggi appare dimenticato. È l’Odin Teatret di Eugenio Barba. Domenica ha iniziato a circolare la voce che il suo attore più emblematico, Torgeir Wethal, era morto dopo una bruciante malattia. Ho cercato una notizia sui giornali che abitualmente leggo, ma al momento in cui scrivo non ho trovato neppure un trafiletto. Ed è una dimenticanza grave. Perché Wethal, oltre a essere stato un grande attore, è stato un emblema di un’epoca che sembra cerchiamo di dimenticare in fretta. Quegli anni sessanta-settanta-ottanta-novanta, dei quali parliamo spesso con nostalgia, con rabbia, con distacco, ma che ancora siamo riusciti molto poco a storicizzare.
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