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BATTLEFIELD di Peter Brook

Un omaggio sospeso al tempo e alla memoria


 

 

[Rosaria Ruffini] Come a voler tornare indietro di trent’anni per rincorrere il tempo e chiudere un cerchio. E ridipingere i colori del passato, riportando il teatro de Les Bouffes du Nord all’aspetto che aveva nel 1985, quando diventò il tempio di uno dei rituali teatrali passati alla storia delle scene: il Mahabharata. Lo spettatore che entra nel teatro parigino per assistere alla nuova pièce di Peter Brook, Battlefield, è colto da stupore di fronte alla visione di uno spazio incantato e completamente spoglio. Illuminato di un rosso pompeiano (grazie al sapientissimo e segreto lavoro di luci di Philippe Vialatte), lo spazio verticale de Les Bouffes non è mai stato così regale. Su tutto sembra aleggiare una misteriosa e ricostruita polvere del tempo. Le pareti graffiate come a riportare tracce, il pavimento consumato e ricreato con un impercettibile tappeto ocra, svelano un’operazione che sembra un lavoro di restauro a rovescio che ricostruisce le rughe del tempo e ripresenta una delle concezioni spaziali più evocative che il ‘900 abbia conosciuto. D’altronde anche gli spettatori sembrano essere gli stessi che videro il Mahabharata nel 1985. La platea incanutita è composta quasi esclusivamente da visi segnati dall’età, fatto sorprendente per Les Bouffes solitamente frequentato da giovanissimi e scolaresche. Ma questa è il momento della nostalgia.
Anche per Brook, che propone oggi un episodio inedito di quel lungo e intenso lavoro che fu il Mahabharata, lo straordinario poema indiano adattato da Jean-Claude Carriere. La breve pièce s’intitola Battlefield (ovvero Campo di battaglia) e non è certo un caso che il titolo metta l’accento sul luogo. Battlefield infatti omaggia ed esalta lo spazio vuoto totale de Les Bouffes, testimone e protagonista di anni di ricerche teatrali.

Il rosso pompeiano delle pareti evoca il rosso del lago di sangue che apre lo spettacolo, quando un attore entrando in scena rivela che quel pavimento spoglio non è altro che un campo di battaglia disseminato di dieci milioni di cadaveri, rimasti a terra alla fine della guerra. Ne descrive il sangue e i corpi mentre un buio inconsueto investe la sala, come a trasferirvi le tenebre che offuscano la vita dopo la tragedia e le oscurità che seguono la morte. Accompagnati dal tamburo del musicista giapponese Toshi Tsuchitori che ritma i passaggi dello spettacolo, i quattri giovani attori (tre di origine africana e un irlandese: Carole Karemera, Jared McNeill, Ery Nzaramba, Sean O’Callaghan), interpretano ruoli sempre diversi all’interno dei numerosi livelli di racconto nel racconto. Nell’assoluta nudità della scena, brilla lo straordinario ruandese Ery Nzaramba, leggero, non invadente, capace di subitanei guizzi comici e di grande concentrazione drammatica, nella migliore delle tradizioni attoriali brookiane. Il lavoro di distillazione dell’azione e del gesto è qui al suo sommo grado. Il minimalismo è ormai perfetto e tutto può essere messo in scena. Re, serpenti, falconi, manguste, principi, dèi e lombrichi appaiono in una catena senza fine, dove ogni attore si ritrova a narrare una storia dentro la storia raccontata da un altro attore e così via. La pièce è un inanellarsi di racconti e favole sul mistero della morte. “La vita è sempre preziosa, anche la più misera”, dice il verme al saggio che lo interroga sulla sua paura di morire. “La vita ha mille forme, mille teste, mille nomi.” Insondabile e inaccettata, la morte è inevitabile: “Nei meandri della vita, lì c’è la morte”. Uno dopo l’altro tutti i personaggi spirano in una rappresentazione mai drammatica, cruenta o teatrale. In scena la morte arriva come un soffio. Ricca di interrogativi. E di ricerca del senso.

 

 

Nessuno spettacolo di Brook era mai stato così chiaramente rivolto alla morte. In scena scorrono funerali e trapassi, morenti che si trasferiscono con uno sguardo nel corpo del loro amico più caro, anime che lasciano il corpo e attraversano gli spazi, aleggiando intorno. Impossibile non “vederli” in questo sottile e concentratissimo lavoro.
Impossibile non vedere l’ombra evidente di Natasha Parry, moglie di Brook, scomparsa qualche settimana prima della messinscena dello spettacolo. O quella di Oliver Sacks, amico e collaboratore di Peter Brook, scomparso a fine agosto. E quella ormai famigliare di Sotigui Kouyaté attore storico, morto nel 2010, ricordato qui nel monologo pronunciato dal saggio Bhisma sul letto di morte.
A loro va la purissima scena dell’anima che vola fuori dal corpo del vecchio saggio, scena che da sola vale lo spettacolo: un lampo di luce investe il corpo dell’attore e vola verso la volta del teatro, mentre ovunque si fa buio. Un baluginio tremante appare sulla cupola del Bouffes du Nord, ancora annerita dall’incendio del secolo scorso, e tutti gli sguardi del pubblico stanno appesi ad ammirare quel lampo fragile e intermittente sul soffitto.
I compagni sono partiti. Brook resta. Il suo discorso non è più quello “nel mondo” ma ormai sconfina in una comunicazione paradossale, quella da lui frequentata per molti anni: i koan giapponesi, le storielle chassidiche della sua origine ebraica, il sufismo mediorientale e i racconti di belzebù di Gurdijeff. Battlefield riunisce insieme tutte le parabole della saggezza brookiana tratte dai testi messi in scena negli anni d’oro della sua carriera: il Mahabharata appunto, ma ai più attenti non sfuggiranno le numerose tracce dello spettacolo più mistico e complesso del regista: la Conférence des Oiseaux (1979). Infilate come perle, una dietro l’altra, questi racconti propongono allo spettatore un percorso che procede per accumulazione, in una sorta di ricerca del senso attraverso parabole giustapposte. Storie che agiscono per intuizioni, aprono porte e fanno intravedere verità che ognuno di noi ha vissuto. Impossibile trarne un messaggio logico-razionale: la realtà appare in un istante, emerge come galleggiando dal fondo della nostra memoria. Ecco la memoria, appunto, di cui è zeppo il nostro esperire. E di cui è zeppo il Bouffes du Nord oggi. Come a voler ritornare al passato. Tutto sembra ordire per risvegliarla, la memoria, dei tempi e delle persone. Di chi c’è e di quelli che non possono più parlare.
Ed è per questo che Battlefield non è più uno spettacolo ma qualcos’altro. La serata si chiude infatti con il racconto di Markandeya, l’uomo che, rimasto solo, attraversa la terra in lungo e in largo senza trovare alcuna traccia di vita. Dopo giorni di cammino nel deserto, Markandeya incontra un bambino, sotto un grande albero, che gli dice “Vedo che hai bisogno di riposarti. Vieni dentro di me”. Il bambino apre la bocca e Markandeya viene trascinato nella sua bocca ritrovandosi in un mondo popolato di persone, torrenti, alberi, campi di riso e mandrie di buoi. Per più di cento anni, Markandeya percorre questo meraviglioso universo, senza mai raggiungere la fine della pancia del bambino. Finché un giorno un vento fortissimo lo risucchia fuori dalla bocca del bimbo che sorridendo gli dice: “Spero che tu ti sia riposato bene”. L’attore che interpreta il bambino si rivolge alla sala, ripetendo “Spero che vi siate riposati bene”. Le luci si accendono mentre gli altri attori si dirigono verso gli spettatori guardandoli. Il pubblico resta immobile, sospeso. E quando ormai sembra venuto il tempo di applaudire, ecco che subitamente il musicista comincia un lunghissimo solo di tamburo che blocca il riflesso quasi pavloviano di un applauso che rischierebbe di sfogare il pensiero creato in scena. Il tamburo discende dal fortissimo a un pianissimo lieve che si assottiglia impercettibilmente nel silenzio sempre più attento della sala. E infine le dita del musicista tacciono. Luce piena in sala. Gli attori e i musicisti guardano il pubblico. Il silenzio è denso. Questo non è uno spettacolo. È un omaggio. Al tempo. Alla memoria.

 

Spettacolo visto a Les Bouffes du Nord, Parigi, il 13 ottobre 2015.

 
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