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TEATRO DEI LIBRI

 

Elena Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell'Arte,  Firenze, Le Lettere, 2012.

La presente recensione di Tomaso Montanari è stata letta in occasione della presentazione del libro di Elena Tamburini, Gian Lorenzo Bernini e il teatro dell'Arte (Firenze, Le Lettere, 2012) presso il Dipartimento di Arti visive performative e multimediali dell'Università degli studi di Bologna il 18  febbraio del 2013.

 

 

[Tomaso Montanari]

 

1. Per molto tempo, negli studi berniniani, la categoria della "teatralità" è stata una sorta di tappeto sotto il quale nascondere la polvere ermeneutica che non si riusciva a fare sparire altrimenti. Addirittura una sorta di rinuncia all’interpretazione, in attesa di tempi migliori.
La Cappella Cornaro con l’Estasi di Santa Teresa, per fare un esempio classico, era immancabilmente detta «teatrale»: e mentre era evidente che un nesso, in effetti, doveva esistere, tutto si faceva tranne che andare a verificarlo storicamente. E ciò, si deve dire con franchezza e con qualche dispiacere, è accaduto soprattutto negli studi italiani di storia dell’arte su Bernini.
In verità già fin dal 1955 la fondamentale monografia di Rudolf Wittkower sull’artista chiudeva con una tradizione di indiscriminata interpretazione in chiave teatrale e contemporaneamente apriva ad una ricerca che tenesse insieme l’attività teatrale e quella figurativa di Bernini, all’insegna dell’illusione e dell’eliminazione della – sono parole di Wittkower – «linea di confine tra finzione e realtà»: una linea ermeneutica ancora fortunatamente  ben viva nelle pagine della Tamburini.
Anche in questo caso, chi meglio degli altri ha percorso la pista è stato Irving Lavin, che nel 1980 ha dimostrato come il vero contributo di Bernini alla storia del teatro non risiedette nella tanto celebrata fantasia macchinistica ed ingegneresca, o negli straordinari effetti speciali, ma nella capacità di coinvolgere inaspettatamente lo spettatore in un’opera d’arte totale la cui finzione, efficace quanto palese, denunciava continuamente l’esistenza e l’identità del creatore, l’artista: una formula che potrebbe altrettanto felicemente descrivere i risultati di Bernini nelle arti figurative.

 

Abbiamo accennato all’illusionismo berniniano: fu proprio il saggio di Wittkower ad utilizzare per la prima volta come chiave principale per l’interpretazione della scultura, e più in generale dell’arte berniniana, concetti come il coinvolgimento emotivo dello spettatore, la confusione delle sfere di realtà e finzione, l’apparente annullamento delle leggi fisiche, l’illusione di vitalità e movimento. Dopo quelle pagine, il modo di guardare a Bernini cambiò, anche in senso letterale. Fin dagli anni trenta Wittkower aveva contraddetto l’idea diffusa e codificata da Wölfflin che le sculture di Gian Lorenzo fossero concepite per esser osservate da una molteplicità di visuali diverse e addirittura invitassero lo spettatore a girare loro intorno: ora egli chiariva che l’artista «non poteva accettare le molteplici angolazioni visive della statuaria manierista» a causa della necessità di far percepire allo spettatore la statua come «un unico centro di energia e un solo culmine dell’azione». Nonostante alcune parziali integrazioni successive, questa idea continua a rimanere valida, e libri come quello di Howard Hibbard, o come lo stesso Bernini e l’unità dellle arti visive di Lavin, non sarebbero stati pensabili senza questo nuovo codice ermeneutico. Un codice particolarmente interessante in questa sede: perché Gian Lorenzo ha sempre in mente non uno spettatore mobile, ma uno spettatore fisso. Cioè uno spettatore di tipo teatrale.
Ma cosa sappiamo sul teatro di Bernini? Da un punto di vista della documentazione materiale, sul teatro berniniano continuiamo a sapere, in realtà, molto poco. Sono stati importanti gli studi eruditi di Cesare D’Onofrio – il quale ha anche rintracciato e pubblicato l’unico testo superstite finora noto. Due recenti interventi di chi vi parla, poi, hanno proposto una fonte inedita, e un tentativo di leggere in modo nuovo l’intreccio tra teatro e pittura nella bottega di Bernini durante il terzo e il quarto decennio del Seicento. Ed è questo il motivo per cui oggi vi parlo.
Ma ora il libro di Elena Tamburini, apparso nella bella collana diretta da Siro Ferrone, costituisce una svolta fondamentale in questo campo di studi.
Basta scorrere l’indice cronologico degli spettacoli berniniani che chiude il volume per rendersi conto dell’ampiezza cronologica del lavoro: che abbraccia di fatto l’intero, densissimo arco del Seicento romano, con importanti proiezioni italiane ed europee. D’altro canto, le quasi dieci fittissime pagine dove sono allineati gli estremi dei documenti d’archivio consultati dall’autrice (spesso prima del tutto ignoti, quasi sempre inediti) rendono chiaro che si tratta di un vero libro di ricerca. Un genere sempre più raro, nella martoriata università italiana.
Elena Tamburini fonda la sua ermeneutica – impegnata, coraggiosa, a tutto tondo – non su notizie di seconda mano, o peggio su parole d’ordine correnti, ma sulla verifica filologica del singolo documento, della singola fonte. Per capire come Bernini faceva teatro, e quale rapporto ci fosse tra questo modo di fare teatro e il suo modo di essere artista figurativo, la Tamburini prima comprende in cosa consistesse realmente il teatro berniniano, raccogliendo e ampliando di molto il nostro canone di conoscenze (un canone, purtroppo, comunque limitato) sul versante più volatile dell’opera del maggior artista (e artista sia detto in senso lato) dell’Italia del Seicento.
E questo è l’aspetto davvero importante del libro.
Può, infatti, accadere che non tutte le interpretazioni critiche dell’autrice siano per me condivisibili. Io, per esempio, nutro una fiducia assai minore della sua nel versante della storia dell’arte che ha mollato gli ormeggi storici per avventurarsi in quella che a me appare come una vaga restituzione metaforico-antropologica dell’arte di Bernini (penso, ad esempio, agli studi di Giovanni Careri, che non di rado rischiano di risolversi in una sontuosa ecfrasis tautologica).
Ma anche laddove la Tamburini sposa – per me, ripeto, troppo generosamente – simili chiavi ermeneutiche, l’obiettività filologica del suo discorso offre ai lettori tutti gli strumenti per approvare o rigettare le conclusioni interpretative. E non c’è miglior garanzia del solido statuto scientifico di una ricerca.
Non posso qua diffondermi in esempi minuti e concreti, ma voglio almeno ricordare che da questo libro esce profondamente rinnovata sia la nostra conoscenza di un aspetto finora assolutamente oscuro del teatro berniniano (alludo al suo ruolo di impresario durante gli anni estremi della vita, quando egli affidò ai figli la gestione di un teatro del quale la Tamburini ha rintracciato perfino il vano architettonico), sia quella di episodi ben più dragati dalla ricerca storica, come il nodo complesso e frequentatissimo del teatro barberiniano, per il quale la Tamburini offre una messe notevole di nuovi documenti (tra gli altri, alcuni rari  preziosi pagamenti per le messe in scena) e – quel che è più raro – di nuove idee.
Forse la cosa più importante che va detta di questo libro, è che esso apre molte più strade di ricerca di quelle che aveva trovate. Ne cito una, a caso: lo storico dell’arte non può non sobbalzare di fronte alla fitta documentazione d’archivio che permette di ricostruire la fin qui insospettata attività per il teatro di uno scultore ancora tutto da ricostruire come Niccolò Menghini, o del ben più noto Ercole Ferrata, che vediamo qua in un ruolo, per lui sorprendentemente vivace, a metà tra lo scenografo e il costumista.

2.
Ma per fornire in qualche nodo un contributo originale, vorrei ora mostrarvi, brevemente, come i territori che il libro di Elena Tamburini percorre così bene, e così felicemente apre alla ricerca futura, possano essere ulteriormente interessanti anche per gli storici dell’arte. E lo vorrei fare riferendomi all’ambito della produzione di Gian Lorenzo forse storicamente più trascurato, ma oggi più in luce grazie ad una mostra che si è svolta  New York e che oggi è aperta al Kimbell Museum di Forth Worth. Alludo ai modelli, alle terracotte di Bernini: un ambito che non sembrerebbe, a prima vista, avere a che fare col teatro.
Quanti modelli avrà plasmato Bernini, durante una carriera lunga quasi settant’anni? Anche solo considerando la piccola parte che sarà stata cotta in vista di una sua conservazione, non si sbaglierebbe a stimarli nell’ordine di alcune migliaia. E il fatto che oggi ne sopravvivano circa una quarantina (e quasi tutti legati alla maturità e alla vecchiaia dell’artista) pone un problema storico che le probabili future scoperte di altri pezzi, magari anche clamorose sul piano qualitativo, molto difficilmente potranno cancellare. Questa distruzione di massa delle terrecotte berniniane è il risultato della somma di fattori generali (la relativa sfortuna secentesca della scultura come arte e della creta come materiale) e particolari (il disinteresse di Bernini per la piccola scultura di destinazione privata). E la lettura degli inventari conferma in pieno questa situazione: né Scipione Borghese, né i nipoti di Urbano VIII  – per fare solo qualche esempio – possedevano modelli di Bernini, del quale questi ultimi  arrivavano invece ad accettare perfino le libere sperimentazioni pittoriche, talvolta giungendo ad esporne alle pareti perfino qualche disegno.
In assenza di una domanda, non esisteva dunque un mercato della scultura in terracotta: ritenuta né bella, né utile all’erudizione essa passava semmai da artista ad artista, come parte del corredo di studio, al pari dei calchi dalle statue antiche o dei repertori di stampe o disegni.
Esiste, tuttavia, anche un’altra faccia della medaglia: molti indizi lasciano pensare che Bernini riconoscesse, se non ai bozzetti, almeno ai modelli un ruolo in qualche modo ‘pubblico’, e ben oltre il tradizionale e necessario rapporto artista-committente.
A differenza di Michelangelo, Bernini non proteggeva in alcun modo il momento della creazione artistica. Nonostante la rivendicazione del tormento creativo, egli trasformava quei momenti cruciali in atti quasi performativi.
Di questo abbiamo testimonianze enfatiche relative alla fase tarda: basti pensare alla realizzazione del busto del Re Sole, che coinvolge coralmente tutta la corte di Francia, o all’esecuzione del Luigi XIV equestre, che vide il «concorso non solo di tutto il fiore della nobiltà di Roma, ma di tutta l’Europa» nella «gran sala» presso San Pietro dove Gian Lorenzo lavorava. Ma non mancano analoghe notizie anche per la fase giovanile: è, per esempio, celebre l’episodio in cui il cardinale Maffeo Barberini resse lo specchio a Bernini, che si autoritraeva nel volto del David (un episodio ben riletto anche da Elena, nel suo libro).
In tutte queste circostanze i modelli (se non i bozzetti) devono aver giocato un importante ruolo pubblico. Immagino che, nella primavera del 1623, di fronte a Maffeo, Gian Lorenzo non abbia scalpellato il marmo oggi alla Galleria Borghese, ma piuttosto abbia plasmato un modello grande del proprio volto, che oggi non conosciamo. E la descrizione più sensibile e appassionata delle danzanti e mondanissime performances berniniane – quella contenuta nella nota lettera di Lelio Guidiccioni all’artista – tramanda efficacemente il ruolo del modello nella genesi del busto di Scipione Borghese del 1632: «Io non sono mai per dimenticarmi il diletto che m’è toccato dall’intervenire sempre all’opra, vedendo ciascuna mattina Vostra Signoria con leggiadria singulare far sempre mille moti contrari: discorrer, sempre aggiornato sul conto delle cose occorrenti e con le mani andar lontanissimo dal discorso: rannicchiarsi, distendersi, maneggiar le dita sul modello con la prestezza e varietà di chi tocca un’arpa; segnar col carbone il marmo in cento luoghi, batter col marmo in cent’altri; batter, dico, in una parte e guardar nell’opposta; spinger la faccia battendo innanzi, e volger la faccia guardando indietro; vincer le contrarietà, e con animo grande sopirle subito; spezzarglisi il marmo per un pelo in due pezzi quando era già il lavoro condotto». Il tono letterario non nasconde il carattere di resoconto programmatico delle tre fasi della realizzazione dell’opera: l’esecuzione del modello in argilla, evidentemente di fronte a Scipione Borghese; la trasposizione dei punti sul marmo; infine l’intaglio del marmo. E qua importa sottolineare come anche il primo momento si svolga pubblicamente.
Tre anni più tardi – in una commedia che ora Elena Tamburini sostiene, con un convincente percorso, debba essere identificata con La Marina, citata dai biografi berniniani – Bernini rese letterale il valore performativo della creazione artistica, rappresentando sulla scena «due accademie, l’una di pittura, l’altra di scultura, nelle quali si lavora continuamente e si vien formando la commedia da’ medesimi accademici, e con l’occasione delle dette arti», «tutta si aggira intorno alla scultura e pittura, e mentre si fanno statue e quadri vanno nascendo i discorsi e intrecciandovisi gli amori con tanta facilità e naturalezza che par che il caso li porti, e con tanta diversità d’invenzioni che l’uomo non si stanca mai». Anche un’altra fonte offre una descrizione convergente: «Nella scena del cavalier Bernini – traduco dal latino di Giovan Battista Doni – si vedevano, grazie ad una bassa finestra, da una parte la bottega di un pittore, dall’altra quella di uno scultore e in entrambe si lavorava, e non erano statiche, al contrario di quanto avviene di solito». Gli attori, come è ormai notissimo, erano i giovani allievi e collaboratori di Bernini: i pittori interpretavano pittori e gli scultori recitavano come scultori. Ora, niente in teoria esclude che questi ultimi scolpissero il marmo sul palcoscenico, ma i costi, il rumore e la polvere che tutto questo avrebbe comportato inducono piuttosto a credere che essi, al contrario, modellassero la creta: ed è probabilmente la più straordinaria autorappresentazione pubblica di uno dei momenti normalmente più segreti del processo creativo. D’altra parte, la più clamorosa ostensione pubblica di un modello berniniano (una scultura in cartapesta grande al naturale, che vorremmo tanto poter vedere)  è ancora legata al teatro: nel 1638 «Sempre lui – Bernini – riprodusse realisticamente il crollo di una casa che aveva schiacciato diverse persone. E mostrò con grande realismo il cadavere di uno di quelli che erano stati schiacciati, perché incutesse terrore. E non c’è da meravigliarsi: egli aveva infatti riprodotto fedelmente il cadavere di uno di quelli che pochi mesi prima erano stati schiacciati dal crollo della casa che sovrastava la bottega dello spadaio vicina alla Dogana. Fece il cadavere di cartapesta, e lo fece portare a braccia».
Una piccola parte del pubblico (già assai privilegiato) del teatro berniniano aveva poi la possibilità di accedere all’atelier dell’artista: un luogo in cui il contatto con i modelli era naturale. Alla, sempre citata, preziosa testimonianza di Joachim Von Sandrart circa i ventidue modelli per il Longino che egli vide con i suoi occhi, si può aggiungere quella di un corrispondente del cardinale Mazzarino, il quale nel 1641 andò a vedere l’appena compiuto busto di Richelieu, e  scrisse al suo padrone: «Altro non voglio dirle se non che, non sono molti giorni, che a fortuna andai dal signor cavalier Bernini, e viddi un bellissimo ritratto, a segno che io ebbi a impazzirmene. Intorno, quello di Borghese, quello del re d’Inghilterra, quello che il medesimo cavaliere fece d’una sua dama quando n’era ciecamente innamorato non sono da paragonare di gran lunga».
Ma il caso più clamoroso è certo quello del busto di Luigi XIV, la cui esecuzione diventa una specie di "reality show" del Seicento, con Bernini perennemente inquadrato dalle telecamere della corte e registrato dal microfono di Chantelou. Quando Bernini arrivò a lavorare il marmo, mise da parte, e non guardò più, i modelli che fino a quel momento aveva realizzato con tanta cura, per non rischiare di produrre «une copie au lieu d’un original»: ebbene, i ben tre loci del Journal di Chantelou dove Bernini afferma questa idea si riferiscono tutti, esplicitamente, a disegni, e non a modelli in terra. E questo, a pensarci bene, è decisamente più sensato: i bozzetti sarebbero serviti solo per la composizione del busto, mentre qua è in discussione la sfida di cogliere una fisionomia individuale (perseguita fino all’inaudita pratica di scolpire il marmo guardando il re), alla quale Bernini era pervenuto proprio grazie ad una serie di disegni, oggi tutti perduti.
D’altro canto, le molte pagine del diario in cui si dà conto dell’evoluzione del lavoro non si riferiscono a bozzetti, ma proprio al singolo modello, presumibilmente a grandezza naturale, di cui Wittkower negava l’esistenza, e che venne invece sottoposto ai commenti e all’approvazione di vari personaggi della corte (tra cui Colbert). Dal 24 giugno al 14 luglio (quando iniziò il marmo) Bernini lavorò, dunque, ad un unico, grande modello (evidentemente tenuto umido grazie all’applicazione di stracci bagnati), che – lo sappiamo grazie alle lettere spedite da Mattia de’ Rossi a Pier Filippo Bernini, mai utilizzate da questo punto di vista – egli condusse ad uno stato di finitezza tale da potervi riversare gli studi della fisionomia del re fissati nei disegni: «A San Germano [… ] il signor cavaliere disegnò varie parti del retratto di Sua Maestà, per poterlo poi fare nel modello a Parigi». Quella stessa corrispondenza ci fornisce una vivida cronaca dello strepitoso successo pubblico di questo grande "studio" in terra: «il mercoledi [24 giugno, Bernini] principiò il modello di creta, et ora lo sta facendo  […] il giovedì mattina venne  monsù Colbert […] e veduto il modello abbozzato disse: “o bella cosa, o quanto è simile al re” […] il venerdì mattina venne monsù di Lione per medesimamente visitare il signor cavaliere, e vidde il suo modello, nel quale ne ebbe gran gusto e ne restò molto soddisfatto».
Leggendo un documento come questo, viene da pensare che la dimensione parossisticamente pubblica della creazione berniniana non può non aver lasciato un segno nella mentalità dei suoi illustri spettatori. Che, in altre parole, Colbert, de Lionne, Chantelou e lo stesso Re Sole non possano non aver valutato quel modello alla stregua di un’opera d’arte in sé: proprio come Bernini valutava i suoi stessi disegni, quando diceva che non voleva vederli per non correre il rischio di trasformare il marmo in una loro copia.
Ecco, si potrebbe dire che il ruolo di Bernini nella storia della ricezione della scultura in terracotta sia stato proprio quello di donare al pubblico gli occhi degli artisti: i suoi occhi.
In altre parole: Bernini educava il suo pubblico, accompagnandolo a comprendere le proprie opere attraverso la condivisione del loro processo creativo, in un intreccio davvero inscindibile tra il  fare artistico e la sua rappresentazione. Una rappresentazione "teatrale": non vagamente, o allusivamente, ma documentabilmente teatrale.

Questo esempio avrà, spero, mostrato quanta strada si possa e si debba ancora fare per comprendere storicamente l’arte di Bernini: un’arte unica, che non possiamo fare a pezzi solo perché ci siamo ridotti a dividere la storia in appezzamenti presidiati dai rigidi confini dei settori concorsuali accademici.
Un tempo la parola d’ordine per risolvere questo stato di cose era "interdisciplinarietà": una categoria e una retorica che, a loro volta, hanno avuto meriti, ma anche fatto molti danni.
Forse è meglio tornare a parlare semplicemente di "storia", e di "ricerca storica" a tutto tondo.
Quella che pratica, con grande ed encomiabile successo, Elena Tamburini.




 
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