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TEATRO DEI LIBRI

 

LA SCIENZA DEL TEATRO. Omaggio a Dario Fo e Franca Rame
a cura di Rosanna Brusegan (Roma, Bulzoni 2013)
Atti della Giornata di studi - Università di Verona, 16 maggio 2011




[Monica Cristini] La scienza del teatro è un omaggio a Dario Fo e Franca Rame, una miscellanea che raccoglie gli interventi di una giornata di studi dedicata ai due attori (ideata da Rosanna Brusegan, studiosa di filologia romanza e allora docente presso il Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Verona), e che ha visto il susseguirsi e l’intersecarsi di studi linguistici e teatrologici nell’intento d’indagare dai due diversi punti di vista la 'scienza del teatro', titolo che “testimonia della riflessione di Fo sul proprio lavoro di ricercatore e di riformatore della scrittura drammaturgica, della sua volontà di superare la visione letteraria del testo teatrale” (Brusegan, p. 21). Brusegan ne ha curato gli atti in un’edizione ricca di spunti di riflessione che si rivela al contempo utilissimo strumento nell’offrire approfondimenti linguistici, filologici e lessicologici agli studi drammaturgici e teatrali. Una raccolta di saggi che dà spazio a un’importante e raffinata riflessione sulla drammaturgia di Fo, accompagnata da opportuni riferimenti alla sua sapiente arte scenica, parte integrante e imprescindibile della sua stessa scrittura.

 

“Secoli e secoli fa, esattamente centotrenta secoli avanti Cristo, prima di imparare ad esprimersi con la scrittura gli uomini iniziarono a dipingere sulle pareti di roccia dentro le grotte dove s’erano rifugiati per viverci” (Fo, p. 11). Da qui parte Dario Fo, nella premessa intitolata All’origine era il teatro, per raccontare il suo incontro e il suo rapporto col teatro: un breve saggio che apre la riflessione sulla necessità di rappresentare e rappresentarsi dell’essere umano e sull’origine di quel dialogo che per secoli l’uomo ha instaurato con quest’arte.


Delle origini della drammaturgia di Fo parla invece Ivano Paccagnella nel saggio Ruzzante à la manière de Dario Fo, nel quale illustra quanto, nell’individuare la sua peculiare lingua scenica, Fo abbia trovato un punto di riflessione nodale proprio in Ruzzante, riconoscendo nei monologhi del drammaturgo rinascimentale le ascendenze del ‘pandialetto’ o ‘iperdialetto norditaliano’, ovvero la personale lingua interdialettale da lui elaborata e definita con Mistero buffo (1968). Una “lingua personalissima, extragrammaticale (o meglio agrammaticale), artificiale, che vive solo nel gesto dell’attore (di quell’attore): nella mimica, gestualità, onomatopea, nella tonalità della voce, [...]” (Paccagnella, p. 29). Paccagnella ripercorre la ricerca del Fo drammaturgo attraverso i suoi spettacoli, a partire da Il dito nell’occhio (1953) e Mistero buffo, per arrivare a Dario Fo recita Ruzzante (1993), con un approfondimento sul ‘pavano’, dal Ruzzante in avanti lingua “simbolo di libertà espressiva contro il «fiorentinesco» dei letterati”, e con un affondo sul ‘pavano di restauro’ di Fo con alcune riflessioni su traduzioni e riadattamenti che il drammaturgo ha operato sui testi del Ruzzante.


Il teatro delle lingue in Lu santo jullàre Françesco di Luigi Matt apre alle riflessioni su alcuni aspetti formali di questo testo, rimandando agli interventi di ampliamento e alterazione voluti da Fo con l’obiettivo di “far emergere l’istrionismo di Francesco”, operazioni che rileggono in chiave comica i testi di partenza, Matt evidenzia, attraverso alcuni esempi, una caratteristica propria di tutto il lavoro dell’attore-drammaturgo, ovvero la sua tendenza ad arricchire di particolari visivi e tangibili le proprie rappresentazioni, caratterizzandole così di un “corposo realismo” (Matt, p. 51). Il saggio presenta una minuziosa analisi del linguaggio drammaturgico di Fo, indagando l’uso che egli fa di elementi dialettali e di "discorsi molto popolarmente impostati" (p. 57), la sovrapposizione di forme antiche e moderne, senza tralasciare l’importanza delle qualità foniche e ritmiche nei testi nati per la rappresentazione e rivelandone le radici nei volgari medievali – negli idiomi usati dai primi giullari – con il risultato di un plurilinguismo tanto orizzontale quanto verticale.


La Parpàja tòpola (1982) è il monologo su cui s’incentra invece il saggio Giullarate e fabulazzi: il medioevo di Dario Fo e Franca Rame, nel quale Rosanna Brusegan indaga i diversi aspetti del medioevo recitato da Fo, orientata a “considerare questo convergere dell’immaginazione creatrice di Fo sulla figura del giullare medievale una proiezione, e la sintesi, incarnata nel corpo, nella gestualità e nella parola, dell’attore-autore Fo che legge, vede e recita con gli strumenti della sua ‘scienza del teatro’ le tante facce del Medioevo ‘detto’, narrato, mostrato, agito dai giullari medievali, da cui sono stati selezionati, volta per volta, i tratti più consoni a rappresentare la sua poetica e ideologia antidogmatiche, immaginifiche e utopiche” (Brusegan, p. 68). Nella lettura del lessico teatrale usato da Fo nelle ‘giullarate’, o ‘fabulazzi’, l’autrice evidenzia nel monologo della Parpàja i tre assi su cui Fo e Rame hanno operato: intreccio, personaggio e lingua. Avvalendosi degli appunti manoscritti di Fo, Brusegan nell’analisi dei personaggi ne illustra le trasformazioni e le caratterizzazioni, ricorrendo a un felice confronto tra le scelte drammaturgiche e l’abilità interpretativa di Fo, e ripercorrendo la tecnica drammaturgica dell’autore nella trasposizione e reinvenzione del testo originale, tratto dal corpus di fabliaux pubblicato dalla studiosa nel 1980.


Prosegue l’analisi del lessico dell’attore-drammaturgo e delle riscritture nell’idioma ‘giullaresco dell’osceno’ Monica Longobardi, prendendo però il via da una pubblicazione di Fo, L’osceno è sacro: la scienza dello scurrile poetico (2010) e dal  carme 5 di Catullo, Vivamus, mea Lesbia, atque amemus. In questo saggio, intitolato «A sì gran fallo». Alcuni esempi dello “scurrile poetico”, la studiosa affronta la sua lettura della materia indagata da Fo–Rame con una riflessione parallela sulle censure riservate all’opera di Catullo nelle sue diverse pubblicazioni e traduzioni dal Settecento in avanti. Longobardi ripercorre dunque il lessico erotico partendo dal Medioevo – e dal controcanto del giullare, prediletto da Fo – riferendosi alle riflessioni proposte nell’Osceno e il sacro e al suo personale lavoro di traduzione e riscrittura del carme. L’analogia che qui si evidenzia è quella tra i lavori di traduzione, nella storia, del peculiare lessico di Catullo, e il percorso di riscrittura dell’idioma giullaresco dell’osceno affrontate da Dario Fo e Franca Rame.


Tra le analisi filologico-linguistiche bene s’inseriscono i contributi dei teatrologhi. Ne L’Arlecchino-Tristano di Dario Fo, Simona Brunetti illustra come Fo rinnovi il mito di Arlecchino, avvicinandolo al pubblico contemporaneo e allontanandolo invece dall’immagine più tradizionale del servo proposta nella drammaturgia goldoniana. Lo spettacolo preso in esame dalla studiosa – creato grazie a una meticolosa ricerca documentale affrontata da Fo con il contributo di specialisti di Commedia dell’Arte – è Hallequin Halekin Arlekin Arlecchino (1985) che, insieme ad altri ‘comici-acrobati’, vede l’alternarsi e l’avvicendarsi del Fo-Arlecchino e della Rame-Marcolfa in monologhi, canti, sketch e singoli episodi. Nell’illustrare il lavoro drammaturgico affrontato da Fo, Brunetti ripercorre la storia della celebre maschera, soffermandosi su Tristano Martinelli e sulle stampe del Recueil Fossard per individuare come e in quale misura Fo si sia riferito a questi nel disegnare il suo Arlecchino. Se infatti l’attore-drammaturgo ha attinto anche alla gestualità caratteristica del teatro minore, del cinema e del varietà, associando il suo Arlecchino al clown, l’impianto drammaturgico presenta una sapiente rilettura dell’evento spettacolare proprio della Commedia dell’Arte. Brunetti si sofferma allora sulle tecniche di cui Fo si serve nel suo Hallequin, come lo sketch o il grammelot, avvalendosi delle utili descrizioni di alcuni lazzi e riferimenti al testo drammaturgico.


Gli arcangeli non giocano a flipper, Aveva due pistole con gli occhi bianchi e neri e Chi ruba un piede è fortunato in amore, è la trilogia (portata in scena da Fo tra il 1959 e il 1961), vista da Nicola Pasqualicchio come occasione per sperimentare tecniche, temi e meccanismi comici, rivelatasi “momento inaugurale di quella “scienza sperimentale” del teatro già abbozzata nelle esperienze precedenti” (Pasqualicchio, p. 147). Nel saggio intitolato Modalità del comico nel primo teatro di Dario Fo e Franca Rame,  lo studioso evidenzia come da Gli arcangeli in avanti Fo si confermi scrittore teatrale con una drammaturgia il cui plurilinguismo non si limita al testo ma si afferma nella dimensione scenica avvalendosi di codici gestuali e dell’uso della voce, giungendo a un terzo livello di plurilinguismo: quello drammaturgico in cui anche la forma del testo si propone come progetto di linguaggio scenico. Nella sua analisi dei drammi Pasqualicchio riflette sull’errato accostamento alle forme del teatro borghese di queste opere, che in realtà smontano dall’interno la struttura e i meccanismi della pièce bien faite. Infine, lo studioso conclude con una bella riflessione sul ‘fantastico’ di Fo, illustrandone meccanismi ed espedienti, e spiegando come esso sia dato anche dai suoi stili recitativi – caratterizzati da un’antinaturalistica amplificazione clownesca, dalla deformazione caricaturale e  dall’automatismo – e non solo definito nelle scelte tematiche, “frutto di una concezione formale apertamente antinaturalistica e di una visione “carnevalizzata” del mondo” (Pasqualicchio, p. 156).


Claudio Giovanardi nel saggio Dario Fo e il parlato teatrale dell’uso elabora il suo intervento a partire da due particolari momenti del teatro di Fo, soffermandosi su alcune farse poco note al grande pubblico (messe in scena nel 1958 e pubblicate nella raccolta Teatro comico di Dario Fo, Garzanti 1962) e su alcune commedie appartenenti al filone politico, Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccoli e medi (1968), L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000: per questo lui è il padrone (1969) e Legami pure che tanto io spacco tutto lo stesso (1969). L’attenta analisi dei testi evidenzia come tratto comune di queste opere l’uso di quella che Giovanardi definisce "lingua media", lontana dalla vivacità delle ‘giullarate e dalle esuberanze del grammelot: “un italiano colloquiale non particolarmente marcato in diatopia, se non per qualche venatura lessicale e qualche modo di dire. Una sorta di parlato teatrale dell’uso […], in cui sono apprezzabili diversi tratti dell’oralità standardizzata nella scrittura o dell’oralità “spettacolare” in vista di quello “stile semplice” che è un marchio di fabbrica di tanta parte della scrittura novecentesca” (Giovanardi, p. 167). Lo studioso propone, a sostegno della sua tesi, una meticolosa analisi degli aspetti lessicali e sintattici più significativi nelle sette farse, soffermandosi sui vocaboli “dal sentore locale”, sulla presenza di frasi fatte e proverbi, su giochi di parole e nonsense logici. La lettura delle opere appartenenti al filone politico sottolinea invece una sintassi semplificata a favore della forte carica espressiva ed emotiva del discorso: lo studioso vi evidenzia un uso della frase scissa, del tema sospeso, dell’anticipazione e di altri espedienti legati alla ricerca di una maggiore espressività e di una riproduzione mimetica del parlato.


A chiudere questo percorso che si è soffermato sulle più importanti fasi della ricerca drammaturgica di Dario Fo è il breve saggio di Pietro Trifone, Sbirulenti inciuci. Neologismi e gergalismi nel teatro di Dario Fo, studio che propone un parallelo tra Fo e la tradizione lombarda dello sperimentalismo linguistico. Trifone illustra come alcune straordinarie creazioni artistiche di Fo siano sorte dagli ‘inciuci sbirulenti’ - quegli accoppiamenti irregolari e soluzioni anomale nati dalla sperimentazione con i diversi linguaggi e da particolari  regionalismi – come dall’uso parodistico di gerghi tradizionali, esteso alle terminologie mediche, della burocrazia, o ai linguaggi della malavita. Un antinaturalismo, quello di Fo, non certo anticomunicativo ma, come spiega lo studioso, che tende ad essere ipercomunicativo, con “ibridazioni aberranti – ovvero inciuci sbirulenti – capaci di rinnovare felicemente la comunicazione. E capaci anche di ampliarla […]” (Trifone, p. 194).


In conclusione, La scienza del teatro propone un’ampia e attenta disamina sulla ricerca drammaturgica di Dario Fo, un’analisi ad ampio spettro sull’evolversi del suo linguaggio drammaturgico, con attente disquisizioni sulle sue caratteristiche lessicali e sintattiche, senza tralasciare però l’importanza e la necessità di includere l’imprescindibile studio della gestualità e dell’espressività mimico-vocale del Fo attore.

 
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